In copertina: EUGENE BURNAND – Moudon (Svizzera) 1850 – 1921 “La corsa dei discepoli Pietro a Giovanni al sepolcro” (Gv 20,1-9) 1898 ca – Parigi, Musée d’Orsay
Due uomini vestiti all’antica stanno correndo nella luce verso un’alba dorata, mentre lo sfondo evidenzia colline e terre coltivate.
Corrono nella direzione contraria al normale andamento del sole: da destra verso sinistra. Fa pensare a un ritorno, a un ripensamento, a una revisione di un qualcosa di già incontrato. Stanno tornando indietro per iniziare tutto da capo, dal principio.
Dove stanno andando? Che cosa “cercano”? Quale esperienza di segno opposto ma della stessa intensità potrà mai farli ripartire di nuovo in una direzione contraria a questa?
Giovanni è il più giovane dei due; un viso pulito, giovanile, senza barba; uno sguardo penetrante, puntato in avanti, alla ricerca di qualcosa, arso dal desiderio di trovarla. Il suo vedere diventerà sempre più intenso fino a credere. In greco – Gv 20, 1 – 10 – sono usati tre verbi per indicare il “vedere”: uno è “accorgersi”, un secondo indica “curiosità e ricerca” di senso dell’oggetto visto, il terzo invece fa riferimento al “comprendere con l’intuizione propria dell’amore”.
Giovanni è l’unico testimone oculare della totale umiliazione di Gesù, il Figlio di Dio. La maestà e la bellezza, il fascino e l’abilità oratoria che aveva imparato ad amare in Gesù, sotto la Croce sono annientate.
Eppure Giovanni intuisce che i conti non tornano, che non è finita lì. Stando sotto la croce con Maria, Giovanni scopre la natura di Dio e lo scriverà nelle sue lettere: Dio è amore.
Le labbra semichiuse, le mani giunte: le sue labbra sembrano trattenere delle parole. A differenza di Pietro, incapace di contenere i suoi slanci generosi, Giovanni si esprime attraverso il silenzio della fedeltà e dell’amicizia affettuosa tipica di un adolescente, parla poco, preferisce guardare, vedere e trattenere. In ciò è simile a Maria che “serbava ogni cosa nel suo cuore”.
Pietro è leggermente più indietro di Giovanni. Si sta interrogando, ma i suoi occhi non guardano in un punto preciso: in lui è rimasto un vuoto da colmare. Aveva per Gesù un attaccamento appassionato, irruento ed intenso; perciò anche sofferto ma tendente ad esprimersi in modo possessivo e violento. Ora sta vivendo in sé il dramma dell’umiliazione del rinnegamento, l’amarezza del peccato e il senso della propria meschinità. Il suo volto rivela inquietudine, angoscia, incredulità, sorpresa inaspettata.
Alle spalle di Pietro, appena accennate, visibili a fatica, il pittore ha raffigurato tre travi a ricordo del crocefisso, del Venerdì santo. Stanno alle spalle perché questa è la mattina di un nuovo giorno.
L’annuncio pasquale della vittoria di Gesù sulla morte è affidato a queste mani – alle mani di Pietro: mani forti e rudi, di chi affronta la dura realtà della vita senza fughe e illusioni – mani fragili eppur robuste, che incontrando quelle degli altri trasmettono la fede, costruiscono la comunità cristiana del Risorto.
Il filosofo austriaco Wittgenstein nel ’37 scriveva: “Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che stato e di ciò che sarà un’anima umana, bensì una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo”. E’ proprio questo il motivo dello stupore gioioso stampato sul volto dei due discepoli che corrono al sepolcro di Pasqua.
Sia così anche per tutti noi:
che i nostri volti siano illuminati
dalla meravigliosa constatazione
del mattino di Pasqua.
Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto.
Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi!
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