2 febbraio 2016:
Memoria della Conversione di san Camillo
Chiusura dell’Anno della Vita Consacrata
Traguardo di “maturità” della Provincia Indiana!
«Ho in mente l’ultima giovane capitata da noi. Ancora non sappiamo cosà deciderà: si è scoperta debole, limitata, e dunque non all’altezza di quello che pensava di dover essere.
Le ho detto: «Guarda che il momento della verità è questo, quando ti accorgi che, rispetto all’immagine altissima che ti sei fatta della monaca che sogni di essere, sei inadeguata.
Bene, ORA SIEDITI PER TERRA: seduta per terra, adesso sai cosa vuol dire CERCARE Dio».
Ignazia Angelini, Mentre vi guardo. La badessa del monastero di Viboldone racconta.
Ma chi sono quegli uomini, discepoli di Gesù, che consacrano la loro vita al Signore?
Uno scatto li ha immortalati e resi celebri la sera del Giovedì Santo: fino a custodirne i lineamenti tra le pieghe del Vangelo, pronti a sfidare il ritmo del mondo e le mode del momento pur di non cedere la Bellezza del Maestro. Ad ognuno di loro Leonardo da Vinci ha riservato uno sprazzo d’arte e di follia nell’Ultima Cena, nel convento di san Marco a Milano, e sembrano sfilare davanti agli occhi di chi s’accosta loro: Simone, Giacomo di Zebedeo, Giovanni, Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota.
Sono i primi consacrati dell’umanità, consacrati direttamente da Gesù, il Consacrato per eccellenza che ne dipinse la traiettoria, ne fissò i lineamenti, ne trasformò l’esistenza. Ignoti pescatori, esattori garibaldini, anonime esistenze pizzicate da un raggio di divina Bellezza: uomini non più uomini, uomini trasformati in consacrati, i primi dell’umanità.
Giuda, il primo dei cattivi religiosi. Primi, di un’innumerevole famiglia: per tutti i secoli dei secoli. Amen! “Tra l’argine e il bosco – scriveva don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo – una povera chiesa e un piccolo campanile”. Semplici coordinate per individuare la biografia del consacrato, di quel vecchio uomo di Dio che ancor oggi – dopo millenni di sfide accettate e di battaglie ingaggiate – al canto del gallo ogni primo mattino s’alza e s’infila silenzioso tra le navate ancora buie per colloquiare col suo Dio e pianificare assieme la giornata lavorativa. Una vita che ai più pare solitaria e fuori moda, all’antica e retrograda, troppo difficile per poter divenire felice: la castità, la solitudine, più spesso l’odio, lo scherno e, soprattutto, l’indifferenza di una società che sembra non aver più posto per lui. Eppure non s’arrende: dalla portineria all’infermeria, dall’insegnamento al viatico per i moribondi, dalla cella alla piazza, dal comprarsi il pane al celebrare le esequie, dalla fragilità da consolare alla comunità /comunione da costruire, dai sacramenti da amministrare alla quotidianità da gestire.
Dovrebbero saperne di economia e di escatologia, di teologia e di botanica, di azioni e di contemplazioni: di terra e di cielo. Non tengono velleità di carriera, assecondano paure e gioie, tristezze e umiliazioni, pane, sogni e poesie. Con il cuore troppo robusto per cedere al martirio di chi li deride, di chi insinua strani discorsi, di chi li vorrebbe diversi solo per poi ri-volerli all’opposto. Anche per l’ultimo religioso anonimo, papa Francesco ha dato inizio all’Anno della Vita Consacrata. Un anno intero dedicato ai consacrati: capolavoro complesso e indecifrabile uscito dalle mani dell’Altissimo. Uomini e donne che con i loro voti religiosi dicono tutto il Mistero dell’Alto pur segnalando la povertà del loro Mistero dal Basso. Mistero di uomini e donne che parlano di Dio senza dimenticare la terra. O, almeno, ci provano ad ogni primo mattino.
Scriveva Voltaire: “La vita religiosa non deve essere invidiata per nessuna ragione. C’è un detto molto noto. I religiosi (monaci) sono gente che si mette insieme senza conoscersi; vive senza amarsi; muore senza rimpiangersi”!
Naturalmente l’obiettivo nella nostra quotidianità è quello di smentire concretamente i pre-giudizi di Voltaire sulla vita religiosa, riarticolando con umiltà, determinazione e passione i punti cardinali che definiscono la polarità di fondo della vita religiosa, dento i quali sta o cade la nostra stessa consacrazione: la vita religiosa si situa sotto il primato del VANGELO; la vita religiosa si situa sulla strada della SEQUELA; la vita religiosa si articola in una vita di COMUNITÀ; la vita religiosa è MISSIONE, ossia testimonianza e presenza nel mondo!
Tuttavia c’è una cornice imprescindibile: la vita religiosa è primariamente “vita”! Ossia movimento, cammino, strada prima di tutto. Questo non è scontato: il vangelo è pieno di “morti che camminano”, sono vivi, perfetti, ma sono “di plastica”, non profumano né di cielo né di terra: il fariseo al tempio, gli accusatori della peccatrice, Simone il fariseo, gli apostoli stessi … ossia persone religiose ma che “non sanno rispondere con sapienza evangelica alle domande poste oggi dall’inquietudine del cuore umano e dalle sue urgenti necessità” (Vita Consecrata, 81), al più ripropongono come dei grammofoni sempre la solita musica! Una fedeltà museale non serve …Regole infarcite di neo-platonismo che non hanno niente a che spartire con l’incarnazione del Figlio di Dio non servono …
La vicenda spirituale e storica della conversione di san Camillo (2 febbraio 1575) ribadisce che Dio è incontrato nella storia e suscita innanzitutto un sentimento, non è il termine di un ragionamento. Questo accade a Giacobbe nella notte quando è in viaggio verso Carran, a Mosè una volta giunto sul monte Oreb, ad Elia all’imbocco della caverna dove per paura si era rifugiato. Il luogo dove sono, il loro tragitto, la loro vita cambiano radicalmente.
La vita di san Camillo attesta che il sentimento è la percezione di me come «toccato» dalla presenza di un’altra persona. Il risentimento, invece, nasce quando, piuttosto che aprirmi all’altro (Altro), mi piego sulla sensazione che questi mi ha in un certo modo «ferito». Non c’è più la capacità di sentire l’altro e di vibrare in conseguenza, ma sopravvive la voglia di far pagare all’altro la ferita della relazione, invece che alzare gli occhi sulla persona che l’ha generata. Tanto più grande è stato il sentimento dell’incontro, tanto più acre può essere il risentimento. L’incontro avviene attraverso una «ferita» non perché sia violento, ma perché l’incontro è sempre un’apertura reciproca!
Il nucleo incandescente della nostra vita consacrata è il movimento del cuore che si affida gettando in Dio ogni bene gustato o minacciato. La vita religiosa è espressione di una relazione nella quale la creatura umana riconosce ed accoglie fino in fondo la propria precarietà e la intende come legame con Dio. Sono una persona che prega perché là dove sperimento la ferita della mia incompiutezza riconosco la silenziosa Presenza degli altri che a me si rivolge. Accolgo con una sorta di tenera gratitudine l’imperfezione dell’opera creatrice, che ha bisogno della mia libertà per compiersi. Se io coltivo una percezione seppur aurorale di questo senso della mia finitudine e le riconosco l’approdo proprio attraverso la conoscenza di Gesù, la preghiera si dà anche se non riesco ad essere presente in ogni parola che pronuncio, perché anche questo fa parte della mia precarietà, del mio limite. Niente si oppone alla mia vita spirituale: non la debolezza, non l’ignoranza, neppure il sonno. Solo l’incredulità come empietà.
L’empietà è la pretesa di farsi centro di se stesso, la volontà di autodeterminarsi compiacendosi del proprio cursus honorum (titoli, buone opere, decime pagate, …), di possedere la propria anima. Il non temere Dio, il pensare a Dio non come a quel Tu sempre chino per rimanere in relazione con me, ma come ad una superpotenza concorrenziale che mi attira e mi annienta. Per scoprire o per rinvigorire il sentiero della vita spirituale – e quindi della felicità – si tratta – secondo i vecchi maestri di spirito di riscoprire la vena aurifera di preghiera che ciascuno porta in sé, di togliere la terra dal pozzo d’acqua viva!
Isacco il Siro – monaco siriaco del VII secolo – ha detto che per pregare bisogna immergersi nel profondo, come fanno i cercatori di perle. Questa immagine mi ha sempre affascinato. La perla, non è forse una lacrima, una ferita cicatrizzata? Ma per trovare la perla occorre immergersi. Immergersi nel dolore, in quella morte che aspira alla vita. Immergersi nella pasqua di Gesù. Ogni esistenza consacrata è – cosciente o ignara – un’immersione nella Pasqua di Gesù!
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