LA CROCE E LA PASQUA.
LA CROCE DEL RISORTO CON TUTTE LE SUE PIAGHE,
LA RISURREZIONE DEL CROCIFISSO CON TUTTA LA SUA LUCE
Nella grande settimana della nostra fede – la Settimana Santa – e nel Triduo in particolare, come credenti in Cristo siamo provocati a tenere insieme le due facce dell’unico evento: la Croce e la Pasqua, la croce del Risorto con tutte le sue piaghe, la risurrezione del Crocifisso con tutta la sua luce. Parafrasando Kant: «La croce senza la risurrezione è cieca; la risurrezione senza la croce è vuota».
Un perdente della peggior specie. Così fallito d’essere stato appeso al patibolo come gesto d’infamia e avvisaglia per i posteri: per tutti coloro che, nel nome Suo, s’azzarderanno nell’ardua avventura della Verità.
Sulla Croce: il disprezzo, la villania; il disgusto manifesto, il ludibrio pubblico, la vergogna nazional-popolare. Perché dunque esaltare Costui, portare a spasso costei – la Croce -, battersi il petto e intonare canti? Perché acclamare un perdente? Che significa «Ti saluto, o Croce santa, / che portasti il Redentor; / gloria, lode, onor ti canta / ogni lingua ed ogni cuor»?
La Croce non fu il titolo di coda di quell’inimitabile storia d’amore: dopo la Croce del venerdì, ci fu lo sterminato silenzio del sabato e la sorprendente sorpresa della domenica. Quel sepolcro trovato vuoto che divenne la ragione prima della grandezza di Maria, quella di Nazareth: reggere il peso di star sotto la Croce le valse il diritto di guardare in faccia la morte – che da quel giorno divenne la croce più insopportabile – e sbeffeggiarla assieme al Figlio suo Risorto: «Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» (1Cor 15,55). Dov’è, o Croce, la tua arroganza?
Quella croce non è bella in sé: è un legno, sporcato di sangue, trafitto dalla menzogna, patibolo di infami. È un legno che non vale nulla!
Quel legno vale solo perché ha ospitato l’Amore sbeffeggiato. Al pari di quel vecchio lenzuolo macchiato di sangue: il suo prezzo è irrisorio, qualche soldo o poco più l’avran pagato. Eppure il suo valore è divenuto inestimabile per aver coperto il Re per un pugno d’ore. Nessun oggetto ha valore in sé: chi gli tributa fama, gloria e sprechi è la grandezza e la santità di chi l’indossa.
Così fu anche di quel legno: valeva poco più di nulla, divenne il simbolo universale dell’Amore folle. Quello che il Vangelo colora di esagerazione: «Dio ha TANTO amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16). Non scrisse che “Dio ha amato il mondo”. Si concede il lusso di un’esagerazione (con un AVVERBIO: TANTO): “ha tanto amato il mondo”.
Le tre vittime montarono insieme sugli sgabelli. I tre colli furono infilati nei cappi allo stesso momento. “Viva la libertà!” gridarono i due adulti.
Ma il ragazzo rimase in silenzio.
“Dov’è Dio? Dov’è?” chiese qualcuno dietro di me. Ad un segno del comandante del campo, i tre sgabelli rotolarono… Cominciò la marcia dinanzi alle forche. I due grandi non vivevano più. Le lingue cianotiche penzolavano gonfie. Ma la terza corda si muoveva ancora; così leggero, il ragazzo era ancora vivo…
Stette là per più di mezz’ora, lottando tra la vita e la morte, morendo d’una lenta agonia sotto i nostri occhi. E lo dovemmo guardare bene in faccia. Era ancora vivo quando io passai. La lingua ancora rossa, gli occhi non ancora vitrei. Dietro di me, udii lo stesso di prima domandare:
“Dov’è Dio adesso?” E udii una voce dentro di me rispondergli: “Dov’è? Eccolo lì – appeso a quella forca…” Quella notte la zuppa sapeva di morto.
(E. Wiesel, La Notte)
Quel legno è davvero da esaltare. Perché è stato abitato dall’Amore, perché è divenuto il simbolo dell’Amore esagerato, perché ciò che gli uomini volevano simbolo del fallimento divenne simbolo del riscatto: della vita che non molla. Di Satana che, indiavolato come nessun altro, s’illude sempre d’aver l’ultima parola. Quella che abbassa le serrande.
Sono parole, invece, che da quella Croce s’alzano solamente: per OSPITARE – «Non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» – e per ricominciare.
Per SCANDALIZZARE, anche: perché il vero scandalo non è un Dio che muore in croce ma un Dio che risorge e prende a schiaffi la Morte. Che, paradossale quanto ambizioso, piuttosto che spiegare il perché del male, scelse l’unica lezione che si poteva ascoltare senza correre il rischio d’interpretare malamente: scelse d’abitare il dolore più assurdo e assoluto – la Morte – per poi risorgere. Lasciando la più splendida tra le eredità possibili: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Ovvero contempleranno la Croce dal giardino della Risurrezione.
Da una posizione privilegiata.
Dio ha tanto amato. È questo il cuore ardente del cristianesimo, la sintesi della fede: «Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama» (L. Xardel). La salvezza è che Lui mi ama, non che io amo Lui. L’unica vera eresia cristiana è l’indifferenza, perfetto contrario dell’amore. Ciò che sventa anche le trame più forti della storia di Dio è solo l’indifferenza.
Invece «amare tanto» è cosa da Dio, e da veri figli di Dio. E penso che ogni volta che una creatura ama tanto, in quel momento sta facendo una cosa divina, in quel momento è generata figlia di Dio, incarnazione del suo progetto.
Ha tanto amato il mondo: parole da ripetere all’infinito, monotonia divina da incidere sulla carne del cuore, da custodire come leitmotiv, ritornello che contiene l’essenziale, ogni volta che un dubbio torna a stendere il suo velo sul cuore.
Ha tanto amato il mondo da dare: amare non è una emozione, comporta un dare, generosamente, illogicamente, dissennatamente dare. E Dio non può dare nulla di meno di se stesso (Meister Eckart).
Dio non ha mandato il Figlio per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Mondo salvato, non condannato. Ogni volta che temiamo condanne, per noi stessi per le ombre che ci portiamo dietro, siamo pagani (e allora anche noi gettiamo “sacrifici” nel vulcano per imbonire Dio, … perché non si svegli), non abbiamo capito niente della croce. Ogni volta invece che siamo noi a lanciare condanne, ritorniamo pagani, scivoliamo fuori, via dalla storia di Dio.
Mondo salvato, con tutto ciò che è vivo in esso. Salvare vuol dire conservare, e niente andrà perduto: nessun gesto d’amore, nessun coraggio, nessuna forte perseveranza, nessun volto. Neppure il più piccolo filo d’erba. Perché è tutta la creazione che domanda, che geme nelle doglie della salvezza.
Perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Credere a questo Dio, entrare in questa dinamica, lasciare che lui entri in noi, entrare nello spazio divino «dell’amare tanto», dare fiducia, fidarsi dell’amore come forma di Dio e forma del vivere, vuol dire avere la vita eterna, fare le cose che Dio fa’, cose che meritano di non morire, che appartengono alle fibre più intime di Dio. Chi fa questo ha già ora, al presente, la vita eterna, una vita piena, realizza pienamente la sua esistenza.
Ecco la Croce: lo strumento della condanna, il patibolo su cui si inchiodano simbolicamente tutti gli orrori dell’umanità, abbraccia di fatto la più paradossale contraddizione, poiché il male e l’innocenza coesistono in una apparente sconfitta della giustizia. Ecco la Croce: gli opposti si toccano e si incrociano, come i due pali che la costituiscono e che si reggono ritti su un foro che penetra la terra. La Croce è l’abbassamento totale di Dio. È la discesa definitiva, fino agli inferi, e per questo mostra lo stile di Dio: un continuo scendere verso gli ultimi e i sepolti nelle viscere del dolore.
È grazie a questa eterna discesa che Gesù, il Figlio, può comunicare la vita eterna a tutti, senza esclusioni. È grazie a questo abbassamento radicale – che sta, cioè, alla radice – che Egli può essere innalzato, affinché lo sguardo di tutti gli schiacciati della terra possa alzarsi e volgersi a Lui, incontrando un volto solidale che genera speranza. La Croce è la manifestazione della radice dell’amore: una totale e definitiva – eterna, appunto – condivisione del dolore del mondo, perché chiunque crede in lui – cioè accoglie questa condivisione – non vada perduto, ma abbia la vita eterna’ (Gv 3,16).
Non esiste altra via alla FELICITA’. Chi si impunta a voler innalzarsi per essere visto e ammirato, chi svende la primogenitura per un piatto di lenticchie e i propri tesori preziosi pur di ottenere uno sguardo, senza accorgersi di quanto gli occhi degli altri possano essere piuttosto di rapina che di ammirazione, smarrisce piano piano l’altezza della propria dignità umana. Fino a sotterrarsi nell’angoscia.
Chi invece opta fiducioso per la via dell’abbassamento, praticando alla radice la scelta dell’ultimo posto in ogni occasione e in ogni relazione, alimentando la fantasia dell’amore con la contemplazione della Croce, sperimenta come frutto inatteso e come consolazione divina la frescura di un’acqua zampillante che riempie il cuore e fa sollevare pacifica/felice la fronte.
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