Nelle lunghe ore stipato in aereo, come nelle lunghe attese al gate dell’aeroporto per un secondo aereo che ti porta a casa, è possibile allentare il senso di noia riempiendo il tempo con la lettura, il sonno o quantomeno il tentativo di chiudere gli occhi, oppure cercando di far decantare le emozioni e raffinare i pensieri a proposito di quanto si è lasciato, predisponendo l’animo a gestire l’ansia per quanto ti aspetta in patria!
Ho trascorso a Taiwan nove giorni, insieme ai confratelli della comunità di Loudong (nella piana di Hilan): giorni speciali perché giorni pasquali, arricchiti dall’intensità liturgica e spirituale del triduo santo e dalla gioia della Risurrezione del Signore e seguiti poi dalla proposta di un piccolo percorso spirituale ai religiosi di lingua italiana sul tema della Vita Consacrata.
Sono stati giorni speciali perché vissuti per la prima volta in una terra dal sapore “mitico” per noi camilliani, perché l’isola di Formosa si può considerare come l’avamposto più estremo verso il grande continente cinese, che fin dall’inizio della nostra epopea missionaria abbiamo cercato di espugnare, offrendo il nostro servizio di cura ed assistenza ai malati.
Conservo intatto lo stupore sorto già la sera del mio arrivo – Giovedì santo – durante la celebrazione della Messa in Coena Domini nella piccola comunità di montagna di Hanshi e poi via via corroborato il Venerdì santo con la liturgia della Passione nella piccola comunità di Lunpei e confermato nella Veglia di Pasqua celebrata nella storica parrocchia camilliana di Lotung e nella messa di Pasqua concelebrata nella nuova chiesa dedicata a San Camillo, con la presenza degli anziani ospiti e dei giovani con handicap psico-fisico, aiutati da un nutrito gruppo di volontari.
Mi era stata anticipato che avrei partecipato, praticamente da spettatore – visto il carattere piuttosto impenetrabile della lingua cinese – a delle semplici liturgie in alcune piccole comunità cristiane di aborigeni, in montagna. Questi piccoli villaggi sono stati introdotti alla fede cattolica dall’indefesso entusiasmo evangelizzatore di p. Ernesto Valdesolo e sostenuti ed irrobustiti dallo zelo dei confratelli camilliani che si sono succeduti, via via fino ad oggi.
Non ho trovato certo la solennità delle celebrazioni tipiche della cattolicità occidentale; solennità dettata più dall’architettura maestosa delle nostre chiese antiche che non dal fervore degli uomini e donne moderni che in esse si radunano. Ad Hanshi, a Lunpei, a Lotung, al contrario, l’architettura, per non parlare dell’accostamento improbabile dei colori o delle luci, agli occhi un po’ raffinati del prete occidentale lasciava decisamente a desiderare, ma ho incontrato tutta la freschezza di uomini, donne e bambini – partiti anche da lontano, a volte con qualche mezzo di fortuna – che hanno preparato con maturità responsabile e con competenza, per tempo, le monizioni introduttive, il pane sull’altare e l’acqua nei catini per la lavanda dei piedi; la croce velata e i canti da condividere in assemblea con il ritmo ben cadenzato tra i diversi momenti liturgici grazie alla perizia di un giovane papà di famiglia che con il suo camice ha diretto magistralmente i gesti e le parole dell’assemblea; il fuoco nuovo, il cero fresco di fusione, i canti in una sorta di rinnovata polilalia pentecostale (cinese, inglese, vietnamita, …), i doni portare all’altare da eleganti coppie di giovani vestiti “a festa” e … soprattutto mi ha colpito la gioia – terminate le celebrazioni – non di fuggire ognuno a casa propria, ma di bere un sorso di the o … di altro non ben identificato , ma insieme!
E questi li chiamiamo aborigeni: parola che per noi tenderebbe ad indicare persone un po’ “isolate, primitive”, non ben introdotte nelle nostre condivise convenzioni civili, sociali e … religiose! Beh! Da oggi in poi, dovrò rivedere la semantica di quella parola, dal momento che il privilegio di aver potuto lavare loro i piedi, mi obbliga a corregge drasticamente il dizionario italiano nel senso di “eleganza, affabilità, accoglienza, serenità, rispetto …”.
Al termine delle celebrazioni serali, dopo qualche decina di kilometri, si parcheggia l’auto nel grande piazzale di fronte all’imponenza del St. Mary’s Hospital, che con la sua struttura composita racconta allo sprovveduto ospite un altro interessante capitolo di storia e di vita camilliana.
Quando i rivoluzionari maoisti li espulsero dalla Cina continentale, i missionari camilliani non si diedero per vinti e andarono alla ricerca di nuovi lidi. Fu così che approdarono a Taiwan, dove da oltre mezzo secolo svolgono il loro apostolato fra i malati e gli anziani.
Nel 1952 i religiosi camilliani venivano per sempre espulsi dalla loro Missione cinese dello Yunnan. Si chiudeva così, con un’apparente sconfitta, l’“epopea leggendaria dei pionieri”. Affaticati ma non stanchi, iniziavano con lo stesso entusiasmo l’avventura di Taiwan. Il sistema sanitario, al di fuori dei pochi grandi centri, era carente, insufficienti i medici e il personale infermieristico. In questo contesto i Camilliani si stabilivano a Lotung, nella contea di Ilan a nord est dell’isola, e nelle poverissime Isole Pescadores.
A Lotung iniziarono l’attività caritativa in un preesistente ospedaletto in legno della capienza di 12 posto letto. Questo ospedale, col tempo, era destinato a diventare quel complesso che è oggi, con centinaia di posti letto e migliaia di consultazioni giornaliere. La prima operazione è del 17 luglio 1952: fu la prima di lunga serie (circa 100.000) compiute in oltre 38 anni di lavoro dal dott. Janez, spentosi nel 1990. E continuano oggi, con l’ausilio di tecnologia sanitaria e terapeutica sofisticata che solo il made in Taiwan può offrire e con la competenza di un nugolo di professionisti che al mattino si riversano nei più svariati reparti.
A vegliare – con tutto il suo sapore di vetusta memoria storica – questa imponente struttura sanitaria, è la vecchia cappella della comunità, in stile cinese, con i cani-dragoni, sul cornicione, sospesi a mezz’aria tra la croce in cima e la gente sotto che celermente costeggia la chiesetta diretta verso il proprio luogo di lavoro e di cura.
Che dire poi del centro di accoglienza per anziani, per bambini e giovani portatori di handicap mentale, articolato proprio secondo la filosofia della casa, con l’ambizione tutta camilliana di curare olisticamente queste persone, di promuoverle nella loro dignità, di offrire loro non uno spazio terapeutico industriale, ma familiare! E da questa piccola cittadella dell’accoglienza, lo sguardo un poco oltre è obbligato a sostare ammirato al campus della scuola infermieri: circa 4.000 studenti si impratichiscono con scientificità ad accostare malati e sofferenza.
“Annunciate il Vangelo, … curate i malati” ed insegnate anche ad altri a farlo!
Molta la messe, pochi gli operai…
Questo è l’aspetto che maggiormente colpisce ed obbliga ad una serena ma seria riflessione: la promozione delle vocazioni camilliane iniziata con entusiasmo nel 1956 non ha prodotto nel tempo gli esiti sperati. La Missione ha perso gran parte del suo personale religioso senza che potesse venire rimpiazzato con continuità nel tempo. Lo elenchiamo, riportando tra parentesi l’anno della morte. Apre la serie il medico-chirurgo padre Aldo Antonelli (1967). Vengono poi fr. Casagrande (1971), fr. Pavan (1984) e fr. Caon (1984). Nel 1987 ci lasciava padre Antonio Crotti, fondatore della Missione Camilliana in Cina e apostolo delle Pescadores per 18 anni. Nel 1990 passava alla Casa del Padre il dott. Janez. Seguivano padre Dalla Ricca (1993), padre Melato (1995), padre Valdesolo (1995), padre Vicentini (1997), padre Camillo Chang (2002).
La storia è fatta sicuramente dagli uomini, ma soprattutto dalla presenza nel loro cuore del Signore Gesù. Importante è sottolineare che, pur essendosi ridotta la presenza dei religiosi camilliani, ancora oggi sono rimasti immutati – grazie a Dio – l’ardimento dei primi missionari, la loro volontà di dedizione, l’amore e la compassione per il malato.
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