Le letture bibliche di questa XX domenica del tempo ordinario, articolano una doppia pista per la nostra riflessione: l’identità della persona che potremmo definire come “straniera o diversa” rispetto alla nostra identità, cultura, storia, pratiche religiose e ancora più in profondità la riflessione critica sulla qualità della nostra fede: siamo credenti o siamo praticanti?
La prima lettura è tratta dal libro di Isaia. Quando gli Ebrei ritornarono nella terra promessa dopo l’esperienza dell’esilio, si raccolsero di nuovo attorno all’istituzione del tempio, che divenne, con le sue leggi, con la sua storia prestigiosa e con le sue forme di culto, fonte di rinnovata identità e luogo solenne di aggregazione per tutto il popolo, con il grande rischio, però, di vanificare le aperture profetiche e di cedere allo spirito nazionalistico.
Isaia ricorda che saranno gli stranieri ad essere accolti sul monte santo e quindi l’appartenenza al popolo ebraico non è un titolo esclusivo, non è una questione elitaria e ‘genetica’ di razza, ma di adesione con la propria vita al Signore e al suo progetto di alleanza. L’amore di Dio si volge anche a coloro che sono considerati i ‘lontani’ e dice: “osservate il diritto e praticate la giustizia” e giungerete a conoscere l’amore di Dio.
Lo straniero è ammesso, se lo vuole, a celebrare in Gerusalemme il culto a Dio, purché lo riconosca come il vero e unico Dio. Quindi tutti gli uomini possono appartenere al popolo di Jahvè perché il tempio, luogo per eccellenza della presenza di Dio e dell’incontro dell’uomo con Lui, è e sarà “casa di preghiera per tutti i popoli” e come tale luogo dove si rigenera una nuova fraternità ed un rinnovato umanesimo plenario. Dio raccoglierà tutti i popoli per renderli protagonisti di una nuova creazione.
L’apostolo Paolo nella lettera ai Romani ricorda chiaramente ai giudei che il messaggio di salvezza che Gesù ha portato al popolo di Israele, e da questi rifiutato, deve essere esteso a tutte ‘le genti’: la misericordia di Dio è per tutti e non solo per pochi eletti. Possiamo leggere in queste parole una profezia di ecumenismo, un tentativo di trovare nella misericordia di Dio, il fondamento e la ragione della chiamata ad una vocazione universale a ritrovare quella ‘immagine divina’ che ogni uomo porta e trova dentro di sé, la sua vocazione a riscoprire e a vivere il suo essere, da sempre, ‘figlio di Dio’.
Nella pericope evangelica ci viene segnalato che Gesù si è rifugiato nel sud dell’attuale Libano, la regione di Tiro e Sidone, per sfuggire la tensione che cresce intorno a lui e qui è ambientato l’incontro straordinario del Vangelo di questa domenica.
La donna delle briciole cadute ‘dalla mensa dei figli’, una straniera, pagana, madre di una figlia malata, una donna intelligente e indomita, che non si arrende ai silenzi e alle risposte brusche di Gesù, si staglia come uno dei personaggi più paradigmatici del Vangelo. E Gesù, il Figlio di Dio, immerso nel vortice di continui incontri e creatore, lui stesso, di sempre nuove relazioni, esce trasformato, lui stesso, dall’incontro con lei.
Una donna proveniente da un altro paese e credente in un’altra esperienza religiosa, in un certo senso ‘converte’ Gesù, gli fa cambiare mentalità, lo fa sconfinare oltre Israele, gli apre il cuore alla fame e al dolore di tutti i ‘figli’, che siano d’Israele, di Tiro e Sidone, poco importa: la fame è uguale, il dolore è lo stesso, identico l’amore delle madri. La donna cananea sembra ricordare a Gesù e ai suoi discepoli, che Lui non è venuto solo per quelli di Israele, ma anche per lei e per tutti quelli come lei che abitano le zone di confine della vita dove il sincretismo è più evidente; che abitano le periferie della fede dove l’ortodossia è sempre difficile da conservare, perché Gesù è il Pastore di tutto il dolore del mondo.
Si parla di una donna Cananea, senza nome: è una donna qualunque e in più pagana, emarginata dal popolo eletto. Una donna la cui identità è definita dallo strazio e dal dolore che porta nel cuore: ha una figlia ammalata e grida a Gesù: “Signore, Figlio di Davide, abbi pietà di me”! Questa donna non parla, ma grida, esasperata dalla sua sofferenza e nella verità che il dolore estrae dalla sua vita, emerge la preghiera più sintetica e più vera di tutto il vangelo: una preghiera che dice tutto di Dio e tutto di me.
Tutto di Dio, riconosciuto come ‘Figlio di Davide’, ossia come l’atteso, il punto di arrivo di tutte le speranze di bene e quindi la roccia solida su cui poter edificare la propria vita;
Tutto dell’uomo, riconosciuto come colui che è degno della ‘pietà’ di Dio, colui che esiste solo se si riconosce bisognoso della misericordia di Dio e se permette alla compassione di Dio di operare in lui.
Anche i discepoli sono coinvolti nell’assedio tenace della donna: “Rispondile, così ci lascia in pace”, sembrano suggerire, pragmaticamente, a Gesù. Ma la posizione di Gesù è molto netta e brusca: io sono stato mandato solo per quelli della mia nazione, quelli della mia religione e della mia cultura.
La donna però non si arrende: aiuta me e mia figlia! Gesù replica con una parola ancora più ruvida: Non si toglie il pane ai figli per gettarlo ai cani. I pagani, dai giudei, erano chiamati “cani” e disprezzati come tali.
E qui arriva la risposta geniale e profondamente ‘credente’ della donna: “è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Questa è la svolta del racconto. Nel regno di Dio, non ci sono figli e figliastri, non ci sono uomini e cani. Ma solo fame e figli da saziare, e figli sono anche quelli che pregano un altro Dio.
“Donna, grande è la tua fede”! Lei che non va al tempio, che non conosce la Bibbia, che prega altri dei, per Gesù è donna di grande fede.
La sua grande fede sta nel credere che nel cuore di Dio non ci sono figli di serie A e figli di serie B, che la sofferenza di un uomo conta più della sua religione. Lei non frequenta la liturgia del tempio di Gerusalemme, ma possiede la dedizione all’umano e il rispetto per la dignità di ogni vita umana, propria delle madri che generano la vita e che soffrono quando questa vita viene aggredita dal male e dal dolore.
La donna cananea conosce Dio ‘non per sentito dire’ ma dal di dentro, lo sente all’unisono con il suo cuore di madre, lo sente pulsare nel profondo delle sue piaghe: «è con il cuore che si crede», scrive Paolo (Rm 10,10).
L’appartenenza alla razza, alla cultura, non contano, Dio passa tra gli stranieri e ritorna a noi con una salvezza che ci viene portata dagli stranieri. Sono le meraviglie di Dio. Ciò che è importante constatare, leggendo questo vangelo, che Dio non ha come scopo di tutelare i nostri interessi privati, materiali e spirituali, ma realizzare per vie impensate, la salvezza del genere umano.
Una donna Cananéa ci è modello e testimone di fede. Non la fede della legge e della lettera, bensì la fede dell’incontro. Oggi il Maestro e il Messia si lascia convertire da una ‘piccola del Regno di Dio’. A noi l’opportunità di abbracciarne lo stile di misericordia, seriamente umano e per questo fortemente divino e pregare con il salmo: “lodate il Signore popoli tutti, perché egli giudica con rettitudine e governa con giustizia”.
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