di Arnaldo Pangrazzi, M.I., in Presbyteri. Rivista di spiritualità pastorale, QS Editrice
Relazioni: tra i volti e le storie del quotidiano
Siamo piccoli, ma preziosi tasselli di un immenso mistero che avvolge il mondo e la storia umana.
Ognuno, a suo modo, è chiamato a riflettere il grande mistero che è all’origine di ogni cosa, a diffondere quell’Amore che sostiene la vita ed è principio di fecondità in ogni sua creatura.
La vocazione del sacerdote si iscrive in un grande progetto di amore: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15, 16); il sacerdote è chiamato ad essere generatore di quell’amore che lo abita: “Dio è amore, chi sta nell’amore sta in Dio e Dio in lui” (1 Gv 4, 16).
Hans Urs von Balthasar scriveva: “Quello che sei è il dono di Dio a te. Que
llo che diventi è il tuo dono a Dio”.
Il ministero sacerdotale è un’opportunità sempre nuova per diffondere il vangelo della carità attraverso gli scambi quotidiani con i fratelli nel presbiterio, i membri della parrocchia e le persone che s’incontrano per le vie del mondo.
Svolge la sua missione guidato dallo Spirito Santo e da un sano realismo esistenziale che lo rende consapevole che ogni contesto umano è abitato dalle proprie e altrui potenzialità, dalle proprie e altrui debolezze e dalle inevitabili tensioni e conflittualità che intercorrono tra le persone.
La vocazione ad amare
“La mia vocazione è l’amore”, scriveva S. Teresa di Lisieux; intuizione profonda che diventa missione per ogni seguace di Cristo, in particolare per il presbitero chiamato ad annunciare il vangelo della prossimità divina attraverso i ministeri tradizionali che celebra ed interpreta, vale a dire: la leitourgia o il culto, la diakonia o il servizio, il kerigma o l’annuncio e la koinonia o lo spirito di comunione.
Il pastore d’anime è un riflesso speciale della vicinanza divina attraverso il suo modo di porsi e relazionarsi con le persone a lui affidate nel contesto parrocchiale, nell’ambito catechetico della scuola, nel ruolo di consolatore dei malati, disabili e anziani, nel rapporto con i giovani, le coppie e le famiglie, in una parola verso chiunque sia bisognoso di sostegno umano e spirituale.
La qualità delle relazioni è al cuore del suo apostolato, così come rappresenta anche l’essenza del vangelo.
Al dottore della legge che chiedeva cosa dovesse fare per ereditare la vita eterna, Gesù risponde: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la mente, e il tuo prossimo come te stesso” (Lc 10, 26-27).
Vivere la pienezza cristiana e sacerdotale consiste nel praticare i tre percorsi dell’amore:
- Amare Dio (espressione trascendentale o verticale)
- Amare il prossimo (impegno orizzontale, inclusivo di persone e creato)
- Amare sé stessi (percorso interiore di auto-accettazione).
La modalità di amare Dio/il prossimo/sé stessi viene così esplicitata:
- Con tutto il cuore: dimensione affettiva
- Con tutta l’anima: dimensione spirituale
- Con tutta la forza: dimensione fisico / comportamentale
- Con tutta la mente: dimensione cognitiva.
La maturità del sacerdote comporta l’integrazione operativa di questi tre orizzonti relazionali insieme all’integrazione dinamica delle componenti olistiche nel dare e ricevere il nutrimento affettivo.
Ne consegue che chi non dialoga o non comunica con la sua gente, chi non ha amici o tende ad isolarsi, alla fine non ama né Dio né gli uomini, né ancor meno se stesso.
Esaminando i tre orizzonti relazionali sopra citati, la base di partenza potrebbe essere proprio la sfida ad amare se stesso, in quanto chi fosse in esilio dentro di sé avrebbe difficoltà nel rapportarsi con gli altri e potrebbe sentirsi alienato o dimenticato da Dio. Tempo fa, non ricordo bene dove, ho letto questa frase: “Ho cercato il mio Dio e il mio prossimo, ma nessuno dei due sono riuscito a trovare. Allora ho cercato me stesso e lì ho trovato tutti e tre”. La Genesi ci ricorda che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, per cui ognuno è custode della presenza divina e alleato, in molteplici modi, con gli altri esseri umani.
Aiutarsi prima di prendersi cura degli altri
Iniziamo, quindi, dalla prima sfida che consiste nell’ imparare a voler bene a sé stessi, a prendersi buona cura di sé.
Si parte dal presupposto che se si sta male dentro, sarà problematico irradiare luce e speranza agli altri.
Sull’altro versante, chi ha un rapporto positivo con se stesso, fondato su una sana autostima che integra creativamente la condivisione dei propri doni con la riconciliazione con le proprie debolezze, è agevolato nel tessere buone relazioni con la gente.
L’opera di maturazione interna è favorita da vari fattori, tra cui: l’educazione familiare e religiosa ricevute, l’umiltà nel saper smussare spigolature del proprio carattere, l’ausilio delle scienze umane, in particolare della psicologica e antropologia, l’accettazione di critiche costruttive per il proprio miglioramento, il beneficio della direzione spirituale, la frequenza di corsi di formazione permanente e così via.
Il progetto di crescita comporta in primis l’arte di “essere uomini” prima di “essere preti”. Altrimenti il rischio è che la propria identità ministeriale sia fondata sui ruoli ricoperti (celebrante, educatore, parroco, confessore, predicatore, animatore, amministratore e così via), a scapito della sostanza.
Molti uomini di Dio restano invischiati nei mille compiti da assolvere e trascurano le relazioni da coltivare, oppure si concentrano sul potere da salvaguardare e non sul servizio da prestare.
In diversi contesti ecclesiali sono aumentate le defezioni dalla Chiesa, a causa di guide religiose troppo arroganti, ligie alle regole, incapaci di delegare o coinvolgere, portate a lamentarsi e a criticare o carenti di affettività.
All’ombra di questi atteggiamenti si cela, spesso, una carenza di auto-accettazione che si trasforma inconsapevolmente in attitudini critiche o acide nei confronti degli altri. Talora, il rappresentante di Dio manifesta disagi o blocchi nel coltivare relazioni affettive per ragioni diverse: c’è chi non si è sentito amato o valorizzato, chi preferisce rifugiarsi nel castello delle proprie convinzioni mentali astratte o delle proprie credenze religiose limitanti, chi teme di mettersi in gioco, magari per non correre il pericolo di essere amato o di amare.
In qualche circostanza una formazione difensiva, talvolta repressiva, ha contribuito a mortificare le potenzialità affettive del prete che erge barriere nel suo rapporto con la gente, che lo può percepire come scontroso, distaccato e incapace di relazioni aperte e affettuose.
Certamente anche il carattere, oltre alla formazione familiare e religiosa, gioca la sua parte, ma su entrambi questi fronti si può intervenire per modificare e migliorare i tratti, sempre quando il soggetto sia motivato e disposto a lavorare su di sé, per meglio rapportarsi agli altri.
Conformarsi a Gesù
Oggi, più che in passato, la credibilità della Chiesa passa attraverso l’umanità del sacerdote chiamato a conformarsi a Gesù: “Con l’Incarnazione, il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo” (G.S.22).
Il primo ingrediente per conformarsi a Gesù è la formazione umana del prete, così come lo sottolinea papa Giovanni Paolo II nella “Pastores dabo vobis”.
Nella vita di Gesù non traspare che abbia vissuto con sofferenza il suo celibato, ma in modo sereno e armonico, in un progetto di universale relazionalità salvifica. Vivere il celibato non rende il presbitero frigido, ma relazionale; non estingue le sue passioni ed emozioni, ma lo rende libero di amare Dio e i fratelli con cuore indiviso, “rendendolo capace di vivere la realtà del proprio corpo e della propria affettività nella logica del dono” (Congregazione per il Clero, Il dono della vocazione presbiterale, n.110).
Per meglio interagire con i documenti umani che incontra ogni giorno, il pastore del gregge è invitato a portare alla luce la componente “femminile” che custodisce in sé, perché diventi calore e tenerezza nell’apostolato.
Influssi benefici per educare il cuore allo sviluppo di relazioni fruttuose e sananti sono i contatti salutari e provvidenziali sostenuti con la madre e figure femminili.
Inoltre, il contatto più profondo con la propria umanità sboccia, spesso, all’ombra di ferite cicatrizzate, che rendono umili e aperti al prossimo.
Il sacerdote è un ferito tra i feriti che egli accompagna. La sua compassione, come quella del buon samaritano, scaturisce da ciò che ha appreso dalle proprie ferite, da come si è riconciliato con il proprio passato, in modo da divenire un “guaritore ferito” accanto alle persone bisognose di sostegno e comprensione.
In sintesi, la buona cura del prossimo parte dalla cura di sé
Il sacerdote uomo delle relazioni
L’evangelista Giovanni scrive: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20).
Il prete donandosi a Dio si dona quotidianamente ai fratelli in una dinamica costante di reciprocità, in uno scambio di dare e ricevere che rende fecondo l’apostolato.
Al centro della sua azione pastorale c’è la relazione, intesa in senso olistico, vale a dire come attenzione che abbraccia la sfera mentale (pensieri, riflessioni, conoscenze…), la sfera del cuore (emozioni, passioni, desideri…), la sfera comportamentale (gesti, atteggiamenti, azioni…) e la sfera spirituale (valori, simboli, credenze).
I vincoli umani sono di varia natura e includono: il rapporto tra genitori e figli, le dinamiche comunicative tra coniugi e/o fidanzati, gli scambi tra amici, i contatti con i colleghi di lavoro, il rapporto tra maestri e alunni, l’interazione con persone nuove e così via.
Il sacerdote, quale rappresentate di Dio e della Chiesa, è chiamato a comunicare con tutti: dal bambino all’anziano, dal barbone al politico, dal vedovo al divorziato, da chi è riconoscente per tutto ciò che ha ricevuto a chi non è mai contento di niente, da chi invoca una preghiera di guarigione a chi è amareggiato perché sta morendo.
La sua missione, attraverso l’impegno del celibato, è di donarsi in maniera totale e universale agli altri attraverso relazioni individuali, di coppia e comunitarie.
La sua opera consiste nell’irradiare quella forza prodigiosa, chiamata amore, che tutto può cambiare.
Nelle parole di Giovanni Paolo II, “L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso se non gli viene rivelato l’amore. Se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente” (Redemptoris hominis, 10).
Virtù auspicabili per trasmettere amore nel ministero, sono: la sensibilità, la discrezione, il calore umano, la benevolenza, l’equilibrio emotivo, il rispetto della diversità.
La partecipazione a corsi di relazione di aiuto, counselling, pastorale pratica, psicologia, insieme alle letture e all’apprendimento da persone preparate in materia, formano il pastore ad essere una presenza affabile e amata nel cuore della comunità.
Oltre alla formazione umana, requisito fondamentale per entrare in dialogo con gli uomini, si propongono altre tre competenze da praticare, per
instaurare rapporti più incisivi e proficui: la competenza relazionale, emotiva e spirituale.
Abbozziamo qualche considerazione sui contenuti di ognuno di questi tre ambiti.
- La competenza relazionale: si fonda essenzialmente sul contenuto di tre verbi, da concepire in modo dinamico e interdipendente, vale a dire: l’arte di saper osservare, saper ascoltare, saper rispondere.
Il primo compito del prete è di imparare ad osservare gli interlocutori:
l’anatomia stessa del volto umano (due occhi, due orecchi e una sola bocca) è progetto di comunicazione e invito ad investire il doppio del tempo ad osservare e ad ascoltare e la metà del tempo a parlare.
Purtroppo molti praticano uno stile comunicativo che contraddice l’anatomia, in quanto parlano troppo, osservano poco e ascoltano sé stessi e non l’altro.
Il corpo è il primo mezzo di comunicazione e saper valorizzarne il linguaggio (postura, contatto, timbro di voce, gestualità…) costituisce la premessa per costruire rapporti incisivi.
In secondo luogo, la relazione richiede la capacità di ascolto, una vera arte che poggia sulla centralità da dare all’altro e nel saper mettersi in sintonia con le sue istanze.
Atteggiamenti del prete che predispongono ad un ascolto attento
includono: mantenersi aperti e rilassati, esplorare con delicatezza i pensieri e stati d’animo dell’interlocutore, coglierne i temi di fondo, individuare e mobilitare le risorse che ha dentro.
Tra gli ostacoli frequenti che possono interferire con l’ascolto si segnalano: la superficialità degli scambi, l’impazienza che porta ad interrompere l’altro o a completarne le frasi, la tendenza a giudicare i suoi ragionamenti o comportamenti, il pregiudizio che porta a non accogliere genuinamente l’individuo, perché lo si è inquadrato o etichettato.
Il terzo anello della triade comunicativa concerne l’arte di saper rispondere ai bisogni e quesiti degli interlocutori. Molti osservano bene, ma non ascoltano. Altri osservano bene, ascoltano attentamente, ma vanificano l’esito positivo del colloquio ricorrendo a risposte scontate e preconfezionate, invece di entrare in empatia con le persone. L’empatia richiede l’accoglienza dei pensieri e degli stati d’animo del prossimo, cercando di comprenderne l’ottica di riferimento.
L’empatia si manifesta nell’addentrarsi con delicatezza nel mondo dei bisogni, attese e preoccupazioni delle persone, aiutandole a far fronte alle responsabilità, rassicurandole, dove opportuno, educandole, quando necessario, stimolandole a identificare obiettivi verso cui orientare gli sforzi, aprendole a Dio e alla preghiera, per ricavarne forza per affrontare la provvisorietà delle certezze.
In sintesi, la competenza relazionale scaturisce dal rispetto del pastore per ogni soggetto che incontra, si approfondisce nella misura in cui presta attenzione alle singole storie, evitando quei “filtri interni” che possono ostacolare l’ascolto, quali: la tendenza a imporre i propri valori e convinzioni, l’assumere attitudini di giudizio o superiorità, l’astrattezza dei consigli o la frettolosità negli scambi.
- La competenza emotiva
Nelle ultime decadi, grazie soprattutto al contributo delle scienze umane, in particolare la psicologia, si è andato consolidando un movimento di crescente valorizzazione dei sentimenti, quale importante sfera della vita umana.
Talvolta, condizionamenti culturali (es. “gli uomini non piangono”), religiosi (es. una connotazione peccaminosa o negativa attribuita a determinati sentimenti, quali la rabbia e la tristezza), o pedagogici (“non ci si deve arrabbiare”) hanno determinato in molti pastori la perdita di contatto con il mondo emotivo e la propensione a reprimerlo o a convertirlo in sintomi organici (ulcere, emicranie, difficoltà con la digestione, insonnia…), non avendo sviluppato adeguate modalità di espressione.
I sentimenti hanno diritto di cittadinanza perché sono naturali e indispensabili per la crescita e le relazioni. Tutti provano sentimenti, anche se alcuni non ne sono consapevoli o li hanno congelati. I sentimenti possono produrre piacere o dolore e suscitare atteggiamenti di avvicinamento o allontanamento nei confronti degli altri.
Costituiscono un pozzo prezioso di informazioni e richiedono attenzione, perché trasmettono la natura dei bisogni, valori e aspettative delle persone. Da una parte, includono gradi di obiettività circa gli eventi e i rapporti ma, dall’altra, possono essere oggetto di distorsione, in quanto sono filtrati da percezioni soggettive, che non rispecchiano necessariamente la realtà.
Al di là delle possibili distorsioni, essi rappresentano, comunque, il nucleo più fragile, delicato e profondo della persona.
Atteggiamenti che possono interferire con la capacità del prete di accompagnare gli sfoghi di chi lo contatta, riguardano: la sua difficoltà a riconoscere ed accogliere le diverse emozioni, il congelamento affettivo, la tendenza a classificare i sentimenti in buoni o cattivi, il facile ricorso alla sublimazione o alla preghiera, per contrastarli o minimizzarli.
Non si è in grado di aiutare gli altri, specie dinanzi a eventi critici dell’esistenza, se non si è appresa l’arte della competenza emotiva.
La formazione del cuore è una priorità pastorale: è indispensabile che il sacerdote abbia integrato positivamente questo tassello dell’esistenza, per poter facilitare l’elaborazione positiva dei sentimenti nel vissuto di chi egli va ad incontrare. La sua missione è di vestirsi di atteggiamenti di disponibilità, bontà, ascolto e misericordia, per trasformare ogni incontro in opportunità di dialogo, scoperta, gratitudine, giovialità, conforto.
La competenza emotiva richiede, come suggerisce Benedetto XVI la “formazione del cuore” (Deus charitas est, 31), per sperimentare la ricchezza d’umanità.
La gente ha bisogno di sacerdoti che siano a contatto con l’affettività, quale importante sfera della vita umana, e sappiano gestire le emozioni in modo affermativo e fruttuoso, per coltivare relazioni umane e umanizzanti.
In genere, il prete che possiede una varietà di risorse verbali, non verbali e comportamentali per comunicarle vive un ministero più intenso, proficuo e gratificante.
Al contrario, chi si irrigidisce dietro schemi protettivi e difensivi e trascura il cuore, si priva di un patrimonio che dà spessore e calore ai contatti interpersonali.
- La competenza spirituale
In terzo luogo, una dimensione specifica del ministero sacerdotale concerne il compito di guidare spiritualmente il gregge, addentrandosi nei vissuti di ogni persona dove si rivela l’infinita misericordia divina.
Nel ministero parrocchiale le pratiche religiose, quali la celebrazione del culto, la catechesi, la predicazione, la formazione degli adulti, l’educazione cristiana dei bambini e dei giovani, le opere di carità e così via permangono al centro dell’azione pastorale.
L’orizzonte spirituale, tuttavia, non si limita alle pratiche religiose, alla frequenza dei sacramenti e all’adesione agli insegnamenti della Chiesa, ma abbraccia la ricerca di senso, la pratica delle virtù, il viaggio nel labirinto di paure e speranze dinanzi ad una diagnosi infausta, talvolta l’esperienza del vuoto o la percezione del mistero, il perseguimento della pace o il confronto con gli enigmi esistenziali, il vissuto di riconoscenza per grazie ricevute o lo sconforto per aspettative tradite.
La gente ha sete di Dio, cerca la consolazione spirituale nei tortuosi e sofferti cammini che, talvolta, si trova a percorrere, ha bisogno di qualcuno che ne percepisca le crisi e lo smarrimento e sappia condurle verso la speranza o ad attingere forza dalla preghiera e dai sacramenti, in mezzo al travaglio di relazioni sofferte o di progetti svaniti.
Anche il modo di pregare e di presiedere alle celebrazioni rende il sacerdote una guidata spirituale, apprezzata o sgradita dalla comunità.
Tra gli atteggiamenti che ostacolano l’accompagnamento spirituale dei fedeli, si annoverano: l’autoritarismo del sacerdote, l’iperattività o la tendenza a privilegiare il fare più che il saper stare con le persone, il formalismo o l’eccesso di enfasi posta sul ruolo e sull’immagine, a discapito dell’autenticità interiore, il paternalismo o la tendenza a dare facili consigli, invece di saper convivere con il silenzio, quale luogo di fecondità interpersonale.
In un’epoca segnata da una forte riduzione del clero e delle vocazioni, si registra una percentuale di preti che brilla per dinamismo e una forte impronta di progettualità, ma che rischia di assolutizzare il principio “Dai vostri frutti vi conosceranno” (Mt 7, 16), attribuendo l’efficacia pastorale solo ai risultati visibili e tangibili. Ne deriva un sostanziale squilibrio nel loro modo di proporsi, che privilegia la produttività e l’efficienza, ma sacrifica il valore della presenza e del dialogo.
Altri, potrebbero identificarsi eccessivamente con i titoli, le funzioni, i simboli clericali trascurando la propria umanità.
Altri ancora invocano il dialogo, ma poi praticano il monologo reclamando libertà di azione e di decisione e rifuggendo dalle possibili occasioni di scambio e confronto con altri. Nel loro modo di esercitare il ministero diffidano della collaborazione e non fanno tesoro dei doni dei singoli e della comunità.
Queste attitudini, dettate da un eccesso di autoreferenzialità, impediscono ai membri della parrocchia di diventare pietre vive dell’edificio comunitario, concepito come dimora di Dio e non proprietà del prete.
Quando gli atteggiamenti negativi prendono il sopravvento, ne scaturiscono relazioni funzionali più che personali, la ricerca del controllo più che della fraternità, atteggiamenti caratterizzati da una logica egocentrica più che dallo spirito di comunione, sforzi destinati alla frammentarietà più che alla progettualità comune.
L’umiltà e la saggezza consistono nel prendere atto di comportamenti nocivi e problematici per rettificarli con una mente ed un cuore diversi, aperti alla multiforme grazia di Dio che si manifesta nella quotidianità degli eventi e delle relazioni.
Conclusione
In sintesi, nella misura in cui il sacerdote cura di più la sua umanità e meno le apparenze, è più aperto al dialogo e alla collaborazione ed è meno direttivo e dogmatico, è più pastore e meno manager, coltiva salutari amicizie ed è meno prigioniero delle paure e delle diffidenze, è capace di donarsi attraverso la giovialità e gesti di affetto ed è meno freddo e appartato, è più fragile e compassionevole ed è meno giudicante e rigoroso, la sua presenza umanizza la Chiesa e consente agli uomini di avvicinarsi di più a Dio e di formare comunità dove il dialogo, la prossimità e la fiducia reciproca restino elementi portanti dello stare insieme e del praticare il vangelo della carità.
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