Missione Salute N.5/2020 pp.14-15
Di p. Augusto Chendi
Le morti di solitudine e le teorie di bare senza nessuno a vegliarle, cui la pandemia ci ha costretto ad assistere, hanno intaccato il tratto più caratteristico del nostro essere umani: la pietà per i morti. Tutta la civiltà si fonda su questa pietas e l’esserne stati privati ci impone, come singole e come collettività, una seria riflessione per decidere come sarà il mondo di domani.
Il bagaglio di tormento e di dolore che ha accompagno e ancora contraddistingue la pandemia da Covid19 ha trovato un’espressione emblematica nella solitudine nella quale l’ospedalizzazione, indispensabile, ha impedito anche ai familiari di salutare, un’ultima volta, i loro cari. Questa pandemia, gestita a livello sanitario per il necessario contenimento dei contagi, ha reso quella solitudine – privata del conforto di un addio accompagnato da una carezza – forse ancora più amara della morte.
L’altro addio perduto è stato per chi è rimasto. Il non aver potuto stare vicino al familiare fino all’ultimo, il non averlo onorato un’ultima volta, il non aver potuto dirgli addio ci ha sconvolti. Abbiamo così imparato a conoscere l’agonia e la morte in solitudine, ad abituarci persino. I morti sono diventati numeri nella conta del bollettino snocciolato ogni sera, in diretta televisiva. La morte è diventata seriale, solitaria, pura contabilità, questione di statistica fredda, senza nomi, volti e storie, che si è scrutata ansiosamente nell’attesa di tornare alla normalità.
Un futuro da costruire
Siamo stati nella condizione, tremenda, di non poter esercitare neppure la compassione perché questa prevede una vicinanza fisica e materiale che ci è stata impedita, così come è stato impedito il rituale per i morti con la celebrazione del funerale. Se si pensa che tutta la civiltà si fonda su questa pietas, che la devozione dei defunti trascende la religione perché caratterizza tutte le culture, di tutte le epoche in quanto è intrinseca del nostro essere umani, è doveroso prendersi un tempo interiore di silenzio, soprattutto oggi in cui la morte – indipendentemente dall’emergenza sanitaria – ci inquieta per il solo fatto di esistere, aumentando anche l’intolleranza all’espressione stessa del lutto.
Nella nostra cultura, infatti, si tende sempre più a negare che la morte esista o sia esistita, nell’urgenza che tutto riprenda e vada avanti, come se nulla fosse. Tutto questo aumenta il senso di solitudine in chi resta, specie se non si possiede una fede nella quale trovare conforto, o nella quale collocare quel filo ideale di affetti che consente di sperare e ritrovarsi.
In questo orizzonte, è utile e doveroso interrogarci quanto questa pietas, mai venuta meno grazie all’ardire di uomini e donne – medici, personale infermieristico ed ausiliario, volontari…. – che si sono prodigati coraggiosamente per curare, consolare, accarezzare, dando anche dignità ai morti, oltrepassando il proprio dovere d’ufficio – gesti encomiabili da tutti ammirati -, debba diventare, come singoli individui e come collettività, motivo di riflessione per recuperarla o darle il giusto peso anche quando tutto sarà finito. E se è innegabile che la morte di una persona amata ci fa sentire ineludibilmente soli, perché ci confronta anche con la nostra morte, in questo momento di verità tagliente, luminosa e sola, non è saggio fuggire, né mentire, men che meno a sé stessi ma, già per il nostro presente e ancor più per il futuro da costruire insieme, non ci è possibile né lecito eludere la domanda circa la collocazione che potremo – dovremo – riservare alla pietas che il grande scrittore russo Fëdor Dostoevski, nel suo romanzo L’idiota del 1869, affermava essere la “la legge principale, forse l’unica vera legge dell’esistenza umana”.
La pietas di Enea
Scavando nelle reminiscenze di studi classici, viene spontaneo associare la pietas all’eroe troiano Enea. Come ci racconta l’Eneide, durante la fuga da Troia, incurante del pericolo personale, Enea si fa carico sia del figlio Ascanio sia del padre Anchise. Cosi l’antico mito di Enea è diventato un’icona della pietas, un sentimento ritenuto fondamentale, una disposizione radicata dell’animo umano che, secondo Cicerone, è dovere (officium) e cura (cultus), capace di dare senso alla storia umana, di conferire solidità e continuità alla famiglia, di preparare il futuro: Enea si carica sulle spalle l’anziano Anchise (la storia) e tiene per mano il giovane Ascanio (il futuro). In tal modo, il pius Enea manifesta non solo il suo affetto verso il padre e il figlio, ma riconosce anche il suo essere debitore nei loro confronti e, per estensione, verso tutti. Anche verso colore che sono mori, da ricordare, da rispettare, da onorare.
In quel gesto, emblematico e pregnante anche per il futuro da costruire, si riconosce chi, non indifferente alle espressioni emotive più autenticamente umane – il nostro pianto, lo sconforto, il senso di smarrimento, il lutto… – non ha paura delle proprie responsabilità per assicurare la possibilità di continuare a vivere, portando il senso della pietas e il senso profondo dell’identità culturale che rendono una comunità degna di essere chiamata “comunità di uomini”.
Il culto dei morti
Il tempo presente – secolare e talvolta laicista -, che gioca tra l’indifferenza alla pietà per chi non è più e la sostituzione di essa con una pseudo-pietas senz’anima, è costretto suo malgrado dalla pandemia a vedere dissolte, nelle morti in solitudine e nelle teorie di bare senza nessuno a vegliarle, le regole minime della pietà. Entrambe cancellano il tratto più caratteristico dell’umanità: la volontà e la necessità di accompagnare i morti verso l’ignoto. L’umanità è, in modo consustanziale, legata alla pietà per i morti, e privarla di questo gesto estremo, di questo legame indissolubile tra i viventi e coloro che non ci sono più significa mandare in frantumi quel che di umano c’è nell’uomo.
l’immagine dei morti e dei sopravvissuti che sono stati privati della pietas, di quell’ultimo gesto d’amore che la veglia e il saluto finale testimoniano dall’albore dell’umanità, ci richiama, in qualsiasi luogo e tempo, la necessità di cose e segni religiosi basati sulla sacralità del corpo. È accertato che con l’uomo di Neanderthal iniziano la sepoltura e il culto dei defunti e con ciò stesso nacquero la religione e le divinità, perché seppellire un morto presuppone che tu creda che ci sia un altrove, un aldilà. Una pratica, culturale, che ci accompagna dalla notte dei tempi, che non si è mai interrotta in alcuna società e in alcun periodo. Una pratica, questa, che trascende e prescinde le religioni e le epoche. Per questo le pestilenze – uniche in grado di sospendere, per un lasso di tempo più o meno dilatato, questa pratica – sconvolgono le società perché, di fatto, interrompono una delle cose che, da millenni, ci rende quello che siamo: uomini. È una cosa umana, semplicemente, troppo umana e la pietas, che va al di là del bene e del male, che si deve riservare anche a un nemico, è appunto riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo, sia in vita sia nella sacralità dolente e solenne della morte.
Un umanesimo aperto alla trascendenza
La pietas, in specie verso i defunti, questa costate antropologica venuta meno a causa della pandemia da Covid19 e che, venendo meno, ci ha destabilizzati sia individualmente sia collettivamente, proprio in quanto caratteristica intrinseca del nostro essere umano e metro di valutazione della civiltà dei popoli e delle nazioni, ci interpella per il futuro che ci sta innanzi, al fine di recuperare o restituire alla nostra cultura e ai nostri segni, laici e religiosi, nel segno della pietas, un umanesimo visitato dalla trascendenza.
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