di p. Luciano Sandrin, tratto da “Capire il malato. Lo sguardto della psicologia“, Edizioni Camilliane, Torino, 2014
«Molti anni fa la mia famiglia stava frequentando una chiesa vicino a casa»: inizia così un libro dal titolo molto significativo e comprensibile anche da chi non sa l’inglese: Vulnerable communion. L’autore racconta che un giorno un gruppo di madre andò dal pastore della comunità a esprimere la loro rabbia per il “cattivo” comportamento di un bambino che frequentava la scuola domenicale: esplosioni verbali, non rispetto dello spazio altrui, fino a picchiare gli altri bambini quando irritato o provocato. E, dopo aver espresso la loro indignazione, queste madre domandarono al pastore di chiamare i genitori del bambino per chiedere loro di non portarlo più alla scuola.
Il “bambino-problema” era Chris, il figlio dell’autore. Sua moglie ricevette la telefonata del pastore che si scusava ed era gentile, ma il danno era fatto. Per molti anni avevano seguito vari programmi terapeutici e counseling familiare. Al bambino era stata fatta la diagnosi della sindrome di Asperger, un grave disturbo dello sviluppo imparentato con l’autismo e caratterizzato da difficoltà importanti nell’interazione sociale.
Dopo quella telefonata i genitori hanno smesso di andare in quella chiesa, ma anche di frequentare quelle madri e lo stesso pastore. Ma, secondo loro, la situazione poteva essere affrontata diversamente: gli altri genitori potevano parlare direttamente con loro nello sforzo di capire, creare amicizia, offrire loro aiuto e promuovere forme di supporto. E creare ponti piuttosto che alzare barriere che escludono.
Attraverso la presenza amorevole di tante persone stavano uscendo da un isolamento che si erano autoimposto per proteggersi dal dolore di essere esclusi, dalla vergogna di essere esposti come “famiglia atipica”, costantemente bombardati da infelici commenti da persone che, pur con tutte le buone intenzioni, rinforzavano in loro il sentimento di essere dei “cattivi genitori”. Attraverso questo autoisolamento, cercavano anche di proteggere Chris dal dolore di essere “in-compreso” e “mal-trattato”. Ma questi muri di protezione creavano ulteriori sofferenze perché impedivano quelle relazioni che potevano offrire amicizia e supporto. Era come un vortice dal quale stavano uscendo attraverso l’ospitalità degli amici, la cura dei professionisti sanitari e una comunità ecclesiale che voleva loro bene. E attraverso tutte queste persone facevano l’esperienza dell’amore di Dio. Quest’ultima esclusione, questo accesso negato, li escludeva ancora una volta e li faceva tornare indietro.
La nascita di un bambino che presenta una disabilità, specialmente se grave, è come lo svegliarsi improvviso da un sogno. Il bambino “sognato” non c’è più. C’è un bambino con una disabilità “reale”. E la famiglia deve fare un viaggio di lutto: abbandonare il sogno e guardare in faccia una diversa realtà: innamorarsi di un bambino che, con la sua nascita, può aver deluso progetti e desideri. Molte famiglie lo fanno ed esprimono una forza particolare, coma capacità di resistere, di affrontare il problema e di crescere. E si innamorano del loro bambino reale.
Per altre famiglie il cammino di accettazione non è facile, a volte dura tutta una vita. Qualche famiglia non accetta il bambino, disabile e reale. O semplicemente lo nasconde. E in questo cammino di difficile adattamento e di combattuta accettazione, il più delle volte, queste famiglie vengono lasciate sole: famiglie isolate che tendono a isolarsi, famiglie che rompono le amicizie e perdono così l’opportunità di farsi aiutare per far fronte ai mille problemi quotidiani.
Alcune famiglie sono come bloccate da un’unica consegna: prendersi cura del bambino. A farne le spese non può essere la vita di coppia, la crescita degli altri figli ma anche lo stesso bambino con disabilità che paga lo scotto di un “sovraiuto”, che gli impedisce di crescere e di esprimere il grado di autonomia che gli è possibile.
Ciò che si dovrebbe fare è, prima di tutto, aiutare queste famiglie a evitare l’isolamento: agganciare i genitori alle organizzazioni della comunità è un mezzo per affrontare seriamente i problemi quotidiani legati alla disabilità, alle barriere sociale e alle conseguenti emarginazioni. A volte, il silenzio che circonda il mondo della disabilità può essere rotto con celebrazioni appropriate, nelle quali anche il grado di rabbia, detto o cantato, diventa una preghiera e può essere un momento di liberazione. Il tutto mediato dalla presenza di una comunità che, se ha tolto i gradini che impediscono di entrare nei vari edifici fatti di pietra, ha soprattutto buttato giù le molte, e invisibili, barriere mentali che impediscono al bambino con disabilità e alla sua famiglia di accedere al cuore della vita sociale ed ecclesiale
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