Di Alessandro Pronzato in Missione Salute N.1/2019
La preghiera personale, nel vangelo, si colloca in un luogo preciso: «Tu, invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto…» (Mt 6,6). L’invece sottolinea un atteggiamento opposto a quello degli «ipocriti, che pregano stando ritti nelle piazze».
Gesù nel sermone della montagna, afferma la validità di alcune espressioni della religiosità tradizionale, ma boccia inesorabilmente un certo modo di praticarle: esteriore, formale, propagandistico. E conferisce loro, quale elemento di novità, una dimensione di interiorità e autenticità. La parola d’ordine è: “nel segreto”. A proposito della preghiera c’è la contrapposizione tra “piazza” e “camera”, tra ostentazione e segretezza. Spettacolo e vita. La parola chiave è quella che indica il Destinatario della preghiera: “il Padre tuo…”.
La “camera” luogo sicuro di preghiera
La preghiera cristiana è basata sull’esperienza-rivelazione della paternità divina e della nostra figliolanza. La relazione da stabilire è quella tra Padre e figlio, ossia qualcosa di familiare, intimo. I professionisti della religione, contro i quali polemizza Gesù definendoli “ipocriti”, nella preghiera cercano l’ammirazione della gente. Ora, se nella preghiera cerchi gli sguardi altrui, non puoi pretenderne di attirare su di te l’attenzione di Dio. Il Padre, «che vede nel segreto», non ha nulla a che fare con una preghiera destinata al pubblico. Quello che conta è la relazione col Padre, il contatto che stabilisci con Lui. L’amore va riscattato dalla superficialità, custodito nel segreto, sottratto agli sguardi indiscreti, protetto dalla curiosità .
Gesù suggerisce la “camera” quale luogo sicuro per la preghiera personale dei “figli”. Sarà opportuno ricordare come i monaci antichi abbiano preso alla lettera questa raccomandazione del Maestro. E abbiano inventato la cella, istituzione monastica, che prima di essere luogo dove si lavorava e dormiva, era oratorio, ossia luogo della preghiera individuale.
Qualcuno fa derivare cella dal coelum, l’ambiente dove uno prega, che è una specie di cielo trasferito quaggiù, un anticipo della felicità eterna. Noi, non solo siamo destinati al cielo, ma non possiamo vivere senza cielo. La terra diventa abitabile per l’uomo solo quando ritaglia e accoglie almeno un pezzetto di cielo. La preghiera, appunto.
Altri affermano: cella è in rapporto al verbo celare (nascondere), il luogo della preghiera nascosta, negata all0invadenza del pubblico e consegnata unicamente all’attenzione del Padre. Le realtà più preziose maturano e si conservano in uno spazio non profanato dalla luce dell’esteriorità.
Gesù, quando parla della camera, non propone una preghiera all’insegna di un individualismo compiaciuto. Il Padre tuo è tuo soltanto se è di tutti, se diventa Padre nostro. La solitudine non va confusa con l’isolamento. Chi si rifugia nella cella, ritrova il Padre, ma anche i fratelli.
Per noi il pericolo non è tanto, come per gli ipocriti, presi di petto da Gesù, quello di una preghiera ostentata sulla piazza.
Il nostro rischio è piuttosto quella di una vita data in spettacolo. Recitiamo una parte. Interpretiamo un ruolo assegnato e sorvegliato dagli altri, o gradito al pubblico. Ci consegniamo ai riti dell’apparenza, della futilità. Difficile rimanere noi stessi, essere veri, nella piazza.
Nei rapporti con gli altri la comunicazione spesso avviene mediante la maschera, non attraverso il nostro volto autentico, con le chiacchiere più che con la parola. Gli obiettivi che intendiamo perseguire, ci rendono, se non proprio ipocriti, certo non autentici. Dissomiglianti rispetto all’immagine originaria. Ostaggio dei giudizi altrui. Ecco allora che la cella ci salva dalla deformazione inevitabile che subiamo nella piazza.
L’impegnativo “faccia a faccia” con Dio, nella preghiera personale, ci obbliga a liberare il nostro volto dalla maschera, a spoglairci delle apparenze, a ritrovare la verità del nostro essere.
«…Egli sapeva ciò che c’è in ogni uomo» (Gv 2,25). Si può tradurre: «… quel che l’uomo si porta dentro».
Chiudere la porta
Quindi è proprio il caso di chiudere accuratamente la porta e accettare quello sguardo in profondità, quel dialogo essenziale, che rivela a te stesso.
Un giovane monaco, afflitto da un problema tormentoso, si era rivolto a un anziano. Si è sentito rispondere: «Torna nella tua cella e li troverai quello che cerchi fuori».
Quando ci convinceremo che il nostro vero volto lo smarriamo fuori, sulla piazza, a teatro, ma abbiamo la possibilità di ritrovarlo, di fronte a quello del Padre, unicamente nel segreto della cella?
Attendi, però a chiudere la porta. Perché non abbia a introdursi di soppiatto il volto posticcio, d’accatto, ad uso del pubblico. Perché le parole non vengano a disturbare la Parola…
Pregare, voce del verbo “appartarsi”. E necessità di “incontrare”, non lasciando entrare…
I Camilliani su Facebook
I Camilliani su Twitter
I Camilliani su Instagram