Perdonare: ciò che il perdono non è

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Arcabas

Scrive Jean Monbourquette nel suo libro sulla arte di perdonare: “Per più di tre anni mi ero dibattuto nel tentativo di guarire da una ferita affettiva. Pensavo di trovare la soluzione miracolosa a tutte le mie amarezze in un perdono unicamente imposto dalla volontà. Ma non era così. Non riuscivo a trovare la pace interiore tanto ricercata”. E questa esperienza lo ha spinto ad approfondire la dinamica del perdono e capire perché, “nonostante tutta la buona volontà e i grandi sforzi”, non riuscisse a liberarsi dal suo risentimento e a perdonare veramente.

Tutti abbiamo occasione, in certi momenti della vita, di perdonare e di essere perdonati. Ne abbiamo bisogno. Senza perdono si finirebbe per rimanere “avvinti come l’edera” al male fatto o subito, in un circolo vizioso senza fine. […]

Sul perdono ci sono false idee che è importante smascherare. Ne elenco alcune:

Perdonare non è dimenticare, anzi comporta una buona memoria, una conoscenza e una valutazione accurata dell’offesa; dimenticare, del resto, non è una questione di volontà, più ci si sforza di farlo e più si ottiene l’effetto contrario.

Perdonare non significa nemmeno negare: di fronte ad una grande sofferenza la nostra psiche si difende rimuovendo ciò che è accaduto e facendolo magicamente sparire dalla coscienza; il perdono non è possibile senza chiamare per nome l’offesa (e l’offensore) e prendere coscienza della sofferenza prodotta.

Perdonare non dipende solo da un atto di volontà: nel perdono sono interessate emozioni, valutazioni, significati, valori, decisioni e comportamenti; la volontà è importante ma non basta.

Perdonare non può essere nemmeno imposto: il perdono è un atto libero; anche i comandamenti funzionano se vengono fatti proprio dall’individuo con un atto “libero” di volontà.

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Arcabas. réconciliation© Adagp, Paris 2012

Perdonare non vuole dire tornare come prima: niente può essere più “come prima”, qualcosa di importante è avvenuto e ha lasciato il segno, ha cambiato non solo le relazioni con chi ci ha offeso ma anche noi stessi; far finta che non sia successo niente, che l’offesa non ci sia stata, mettendoci una pietra sopra non funziona. Sotto la pietra tutto può rimanere come prima e il rapporto rischia di essere ristabilito sulla base della menzogna: nuova la superficie fatta di gentilezza ma la rabbia, sotto sotto, è quella di prima e troverà i suoi sfoghi, anche se mascherati.

Perdonare non significa rinunciare ai propri diritti: il perdono che non combatte l’ingiustizia rischia di tollerare la sopraffazione e perpetuare il crimini, non è segno di forza ma di debolezza.

Perdonare l’altro non vuol dire giustificarlo o scusarlo: giustificare o scusare può essere una manocra psicologica (a volte) per attenuare la propria sofferenza, ma può essere anche un segno di disistima verso che ci ha offeso, trattato come uno che non ne ha colpa perché “poverino”, la ragione del suo comportamento è “al difuori di lui”.

Perdonare non è voler dimostrare una propria superiorità morale: certi modi di perdonare finiscono per umiliare l’altro, sono una forma di ostentazione della propria grandezza morale in confronto con la “bassezza dell’altro”, una forma sottile di arroganza che cerca, più o meno consciamente, di nascondere la propria umiliazione, un grazie farisaico per non essere “come loro”.

Perdonare non è scaricare su Dio la responsabilità di farlo: affrettarsi a delegare a Dio il compito di perdonare chi ci ha offeso può essere una fuga dal prendere coscienza di ciò che è veramente accaduto e dall’accettare le proprie responsabilità; Dio fa la sua parte ma non dobbiamo tirarlo per la giacca o nominarlo invano.

Il perdono è un fenomeno complesso, un processo che fa appello a tutte le facoltà della persona, un cammino che ha bisogno di tempo.

Sbarazzarci delle false idee e dei miti che lo riguardano è il primo passo per cominciare a conoscerlo meglio e poterlo praticare.

in Luciano Sandrin, Perdono e riconciliazione, lo sguardo della psicologia, Edizioni Camilliane, Torino, 2012