Di Antonio Casera in “Beato Enrico Rebuschini. Angelo dei sofferenti” edizione Velear.
San Camillo, oltre ai tre voti tradizionali di povertà, castità e obbedienza, ne aggiunse uno specifico per il suo nuovo Ordine: servizio completo al malato, ancorché appestato. Padre Enrico fu “eroico” anche nell’assistenza agli infermi. Si distinse come fedele imitatore di San Camillo.
Fu figlio devoto del suo Fondatore. Guardava a lui come al suo maestro, con intelletto d’amore, con volontà decisa all’imitazione, anche perché si rese perfettamente conto che il Santo, con il suo Ordine, con i suoi insegnamenti, con i suoi esempi, aveva efficacemente preparato l’infermiere moderno, che con la sua carità, avrebbe saputo usare la tecnica assistenziale più adatta ai tempi.
Fece sua e scelse come programma di vita, la seguente frase di San Camillo: “Il ministro degli infermi dev’essere un uomo che si avvicina ad un suo fratello, che ha bisogno di aprire il cuore alla speranza di un domani migliore, che deve essere capito e sostenuto in questo sforzo di apertura ai traguardi del tempo che finisce, ma anche su quelli dell’eternità, che non finisce mai”.
Padre Enrico ha vissuto nello spirito del suo Padre e Maestro, e si è sforzato di imitarlo nel suo ardente zelo di servizio materiale e spirituale agli infermi.
Così facendo, padre Enrico, riuscì a ripresentarci di nuovo San Camillo, come una straordinaria figura, che appartiene a tutti i tempi, con i suoi bisogni ed esigenze.
Padre Rebuschini va colto nel suo instancabile ministero per gli ammalati. Fu un grande apostolo dei sofferenti. Riusciva ad offrir loro il conforto e la serenità che solo un amico di Dio può elargire. Fu un maestro nell’arte dell’assistenza. “Su questo suo ministero – dice Mons. Ernesto Cappellini – il più sentito, il più fecondo e il più esemplare, le testimonianze furono numerosissime”.
Considerava i malati come parte integrante della sua vita. Erano cosa sua e per loro sapeva trovare le parole adatte, ridotte al minimo, ma che rivelavano lo sforzo che il padre faceva per immedesimarsi nell’ambiente sociale, familiare, intellettuale, morale che aveva formato l’ammalato, col quale parlava. Poche parole, però piene di amore e intuito che lo mettevano a suo agio.
Aveva uno stile inconfondibile nell’accostare l’ammalato e nel parlargli. La sua permanenza in stanza era sempre relativamente breve, perché non indulgeva a conversazioni né di convenienza né di passatempo; entrava per parlare di Dio, per suggerire ragioni cristiane di accettazione della sofferenza, per impartire la benedizione.
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