Giovinezza
Aristea era una ragazza bella, gentile e avvenente non solo nell’aspetto fisico ma anche e maggiormente nel portamento e nel comportamento. Alta, capelli nerissimi, che nella loro massa semplice e modesta, le erano di
vero ornamento, fronte spaziosa, occhi marroni vivi e profondi, con un incarnato bianchissimo soffuso di rosa.
Anche per lei il matrimonio è combinato. I suoi genitori scelsero il giovane Igino (Gino) Bernacchia senza chiederle il parere, e abituata com’era ad agire sempre sottomessa alle disposizioni altrui non esitò ad accettare il fidanzamento e quindi il matrimonio. Dopo quattro anni di fidanzamento, il 9 ottobre 1901, sposa il Bernacchia nella chiesetta parrocchiale del Crocefisso. La liturgia nuziale è officiata dal don Cesare Soccetti. Aristea, neo sposa, andò ad abitare in casa dei genitori di Igino, sempre in Ancona, in via Terenzio Mamiani. Al pian terreno vi era un negozietto, ben avviato, in cui si vendeva pane e generi di salumeria confezionati durante il periodo autunnale. Si lavorava all’ingrosso e si fornivano anche gli altri negozi. Aristea, come sempre, si mostrava a tutti affabile, rispettosa, servizievole, non solo con i suoi nuovi suoceri (Antonio e Laura Ricotti) ma anche col fratello maggiore di Igino, Lemizio e sua moglie Valeria.
In quella casa, per il suo animo fiducioso e speranzoso, era additata come “quella della speranza“. Purtroppo, pur riconoscendo queste doti, la nuova famiglia di Aristea non seppe ricambiare, anzi, nei suoi confronti, divennero tutti esigenti e si abituarono ben presto a farsi servire, quasi ne avessero il diritto. La suocera Ricotti, si mostrò sempre un po’ dura e insofferente nei confronti di Aristea. Questo atteggiamento nei confronti della Serva di Dio fece sì che anche i garzoni della bottega si sentissero autorizzati a fare altrettanto con lei. Proprio questo clima un po’ duro favorì nel suo animo sensibile l’esperienza dell’amore gratuito del Signore che da sempre sentiva vicino.
Il suo rapporto col Signore è concreto, reale. È Gesù il suo Divino Modello, maggiormente Gesù Crocefisso, in cui “è tutto scritto a caratteri grossi, e vi possono leggere anche gli ignoranti” (scrive nel suo diario). Il suo cuore arde d’amore per Gesù: si ritrova, come lei stessa analizza, ad amarlo di un amore insufficiente, inferiore a quanto Cristo meriterebbe. Scrive: «Vorrei amarlo tanto, tanto, il Signore! […1 Vorrei morire ai piedi di questo Dio, che sento non come una fede, ma come una realtà». Scriverà nel 1926, a Vittorio Pece: «Consideriamo le pene intime di quel Sacratissimo Cuore! Dimenticare, annientare noi stessi per consolare, sollevare, aiutare Gesù nelle Sue Creature. Pensiamo la missione di Maria Santissima ai piedi della Croce! Essa non ha modo di pensare a sé, è così profondamente immersa nelle pene del Suo Divin Figliolo, e insieme alla grande Vittima si offre per le anime tutte». E in una pagina del diario, appunta: «Amare Dio sopra ogni cosa e più di ogni cosa, e amare il prossimo, non come noi stessi, non solo, troppo scarsa e misera sarebbe stata la misura! Ma come Tu, o Dio, hai amato noi! Solo così, senza misura! Si, o Signore».
L’intimità fu ricambiata dal Signore con doni eccezionali, lo stesso p. Giacomo Meschini, ce ne offre un sunto e una testimonianza eloquente: «Maria Aristea possedeva doni carismatici, soprannaturali: estasi, rivelazioni, penetrazione dei cuori, compiere guarigioni. Ad esempio: Gesù le mostra il Calvario da ascendere; l’Angelo Custode la istruisce sul comportamento, sulla virtù, sul modo di offrire a Gesù i dolori […]». È risaputo poi, che quanti amano Dio, sono maggiormente insidiati dal nemico: anche Aristea dovette superare non poche difficoltà. Lo stesso p. Meschini ricorda i numerosi “dispetti del demonio in chiesa, per strada, in casa”, tutti affrontati nella consapevolezza che Dio camminava con lei e l’accompagnava per mano.
Nel 1902, il giorno di Pasqua, Aristea, tra dolori lancinanti, ebbe la perforazione del globo oculare. Dopo cinque anni di sofferenze e cure dolorosissime che si rivelarono comunque vane ed inutili, dovette sottoporsi all’espianto dell’occhio, l’ultima immagine che volle vedere fu quella d’Immacolata che andò a visitare nella cappellina dell’ospedale. Di quei giorni scrive nel suo quadernetto spirituale: «Mi intrattenni a pregare, tutta lieta di offrire l’occhio a Gesù, che un giorno me lo aveva dato. Domandai in grazia che l’ultima visione prima di spegnersi e di sparire per sempre, fosse stata l’immagine della Vergine. Infatti l’ultima cosa che l’occhio vide fu l’Immacolata». Eppure, nonostante il lancinante dolore il pensiero è sempre per Cristo.
Non solo un dolore fisico, esso era unito alle continue umiliazioni subite dal marito. Quando, poi, nel novembre del 1911, il marito Igino venne assunto dalle Ferrovie dello Stato, presso l’ufficio di Ragioneria, si trasferì a Roma, nella casa, di cui accennavo all’inizio. Qui Aristea prese a frequentare assiduamente la vicina chiesa del Corpus Domini, ivi conobbe, all’incirca nel 1915 padre Domenico Verrinot, che divenne il suo padre spirituale, sino al 1925, anno della morte del Verrinot. Fu proprio lui, che nella Festa del Nome di Maria, il 12 settembre 1921, nell’atto di comunicare Aristea, pronunciò la formula di conferimento del nome di “Maria“. Anche se il comportamento del marito
peggiorava col passare del tempo, la Ceccarelli non si perdette mai d’animo, ma donna saggia e forte, amabile e paziente, continuava ad affrontare con più profondo spirito di fede le incombenze e le difficoltà della quotidiana vita coniugale.
Dopo la morte di p. Verrinot, Maria Aristea si affidò alla guida altrettanto sapiente di p. Angelo Ferroni, anch’egli camilliano. Morto p. Ferroni, nel 1927, divenne suo direttore spirituale padre Giuseppe Bini, anch’egli figlio di San Camillo. Il Bini l’avviò alla crescita nella carità e disponibilità verso gli infermi. Ciò le permise di accostarsi alla spiritualità e al carisma dell’Ordine di San Camillo, per il quale si offrì vittima e ardente sostenitrice delle vocazioni camilliane. Per l’obbedienza a p. Bini accettò di scrivere il suo “Diario” che, essendo quasi analfabeta, dovette dettare a un’amica.
Sposa
I tempi in cui viviamo ci offrono vaste riflessioni sul tema della famiglia. C’è urgente bisogno oggi di “scrivere”, talvolta anche di riscrivere, sulla famiglia: autentica, nuova poiché rivestita di Cristo, immagine bella, riflesso della bellezza creatrice e provvidente di Dio, che sia segno credibile nel mondo dell’amore di Dio. Una famiglia che non si lasci intimidire dai tranelli della politica, dai giochi di potere occulto, ma che sia protagonista e costruttrice di un mondo migliore. In questa scia si inserisce la figura della nostra Serva di Dio, che ha vissuto pienamente la sua vocazione di laica e soprattutto di sposa. Ella visse la sua vocazione sponsale orientata verso una carità come imprescindibile forza di coesione interna. Ha vissuto con testimonianza coraggiosa e quotidiana i diversi aspetti delle dinamiche di coppia: ascolto, accoglienza, comunione, tenerezza, solidarietà, fedeltà, gioia e anche un po’ di humor.
All’interno del suo matrimonio tutto assunse il volto solidale del servizio e dell’attenzione non solo verso il suo coniuge Igino, anche se da questi era raramente ricambiata, ma anche verso quanti vivono nella povertà e nell’indigenza, gli orfani, gli handicappati, i malati, gli anziani, chi era nel lutto, quanti erano nel dubbio, nella solitudine o nell’abbandono; una solidarietà che si aprì all’accoglienza, che seppe farsi voce di ogni situazione di disagio, che seppe farsi speranza. Nonostante le tante umiliazioni causate dal marito Igino, appunta nel quaderno: «E poi Gino fa anche troppo, io sono povera, non ho diritto a nulla e tutto quello che ho è per sua bontà! Prego sempre il Signore che voglia ascrivergli a carità fiorita l’avermi accolta sotto il suo tetto e nutrita per tanti anni». Possono aiutarci a capire quest’aspetto della vita di Aristea le parole di Giovanni Paolo II, che nella Lettera alle famiglie del 1994, scriveva: «Quando l’uomo e la donna nel matrimonio si donano e si ricevono reciprocamente nell’unità di “una sola carne”, la logica del dono sincero entra nella loro vita». Una logica che non è solo ad intra ma anche ad extra, non solo tra marito a moglie, ma anche verso chi è indigente. Si legge nei Chassidim: “Vediamo che la candela, lo stoppino e l’olio emanano luce consumandosi. Allo stesso modo, l’uomo che si consuma per gli altri emette luce spirituale”. La testimonianza coniugale di Arista chi insegna che la luce della vita splende, la fiamma della carità divampa sempre più, e affinché non si spenga bisogna che ognuno si consumi per gli altri e si doni.
Maria Aristea, sposa, fu esempio di grande pazienza: appena divenuta sposa prende saldamente in mano la situazione di casa: con dolcezza, ma con spirito manageriale. Senza perdere la serenità, si aggrappa alla preghiera. Al cuore della sua vocazione coniugale, la scoperta reciproca di una fede che costituì sempre il punto di forza della sua vita. Il suo stato di vita fu la sua autostrada verso in Cielo.
Dio voglia che l’assoluta “ferialità” della sua vicenda cristiana porti ognuno a concludere, in coscienza, che è davvero imitabile questa sua “santità tra le mura di casa”: sarà un’iniezione di fiducia per tutte le famiglie, in questi tempi difficili ed instabili.
Aristea mise le ali alla sua già profonda spiritualità, facendo crescere e perfezionare quanto fino ad allora già ha cercato di vivere alla luce della fede e dei comandamenti di Dio. La nostra Serva di Dio ci hai ricordato che «si è santi non perché si vive in chiostri odorosi di incenso, salmodiando o curando infermi: ma perché si ama. E l’amore è possibile a tutti» (p. Giordano Muraro).
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