Conclusione
Si può certamente essere madre, pur non avendo mai generato fisicamente. Si può essere sposa felice anche nelle differenti vicissitudini della vita. Molte coppie oggi, anche quante si professano cristiane, sono talmente abituate ad avere tutto, che vogliamo sempre di più… e subito. Ciò ha indebolito i rapporti, ha svilito la speranza. La figura di Maria Aristea, invece, ci insegna il gusto dell’attesa e della pazienza, virtù necessaria per edificare e vivere la speranza cristiana. La pazienza è necessaria per resistere e perseverare. Noi tendiamo all’impazienza, soprattutto per liberarci da un fastidio o per appagare un desiderio. Chi è paziente ha la forza interiore di accettare e sopportare le noie della vita e di rinunciare al desiderio che i suoi desideri si realizzino subito. L’uomo paziente non è schiavo delle cose di questo mondo o del suo benessere personale. L’uomo paziente può sopportare la lotta della vita, poiché in lui c’è lo spazio interiore che fa crescere la speranza cristiana. Maria Aristea, appartiene, non ad un’epoca lontana dalla nostra, ma diversa, non ad una generazione passata, ma che ha esigenze differenti.
Maria Aristea, con il suo essere donna, madre e sposa, ci ricorda le cose rotte non si buttano, ma si aggiustano. Già, è quella forza la si trae dal Crocefisso – Risorto, che ha fatto nuove tutte le cose (cf Ap 21, 5). Maria Aristea ci ha insegnato ad aprire i nostri occhi, a scovare quel povero Lazzaro presente dentro la nostra famiglia, dentro il nostro posto di lavoro, dentro la nostra comunità parrocchiale. Portano il suo nome i nostri anziani, i nostri ammalati, i nostri bambini, che, con troppa facilità, noi adulti, affidiamo alle cure della televisione o dei videogiochi, dimenticando che i bambini hanno bisogno della tenerezza e del tempo dei grandi. Portano il nome di Lazzaro, i nostri famigliari e amici, i nostri colleghi di lavoro, i nostri vicini di casa che vivono difficoltà economiche o drammi familiari, che noi ci limitiamo a compiangere senza, però, aiutare. Maria Aristea ci educa a lasciare i letti di avorio (cf Am 6,4), su cui giace, sonnacchiosa, la nostra pigra solidarietà, a svuotare le nostre coppe piene del vino (cf Am 6,6), piene di una solidarietà comoda, di una solidarietà di circostanza, perché siano riempite con una solidarietà che tenda alla giustizia, che sia piena di pietà, che nasca dalla fede, che inondi di carità, che sia ricca di pazienza e di mitezza, che cerchi di raggiungere la vita eterna (cf 1Tim 6,11-12). L’esempio di Maria Aristea ci insegna che le piaghe di Lazzaro, di tutti i Lazzaro della nostra società, sono quelle procurate dalla nostra indifferenza. Che quando riusciremo ad aver pietà del Lazzaro piagato, che giace sull’uscio della nostra porta, incontreremo il Cristo. Proprio nel nostro tempo, in cui, come ha affermato papa Benedetto XVI «la stabilità della famiglia è oggi particolarmente a rischio; per salvaguardarla occorre spesso andare controcorrente rispetto alla cultura dominante e ciò esige pazienza, sforzo, sacrificio e ricerca incessante di mutua comprensione».
Pazienza, sforzo, sacrificio e comprensione: sono queste le parole chiave che hanno segnato la vita di Aristea e che la hanno dato di accettare il vincolo matrimoniale, pur in condizioni di obiettiva difficoltà. Urge, a questo punto, entrare proprio nel cuore di Aristea. Non possiamo capirne la vita, noi che siamo abituati a alla ribellione, noi che prima di parlare di doveri, ci preoccupiamo che i nostri diritti siano ben tutelati. In quest’ottica è impossibile capire il mistero di Aristea, è impossibile capirne la spiritualità e tanto meno il suo carisma che tocca le alte vette della mistica, come ha apertamente detto la prof.ssa Maria Carolina Campone, esperta di mistica e autrice di numerose opere sull’argomento. Non possiamo capire Aristea se non cambiamo prospettiva; «gli uomini e le cose umane bisogna conoscerli per amarli, Dio e le cose divine bisogna invece amarle per conoscerle» disse Blaise Pascal, ed è una forma più semplice per esprimere l’assioma di sant’Anselmo credo ut intelligam! – credo per capire, mentre la logica umana direbbe voglio prima capire per poi credere.
La testimonianza di Maria Aristea ridicolizza il nostro “voler capire”, perché nessun esercizio e nessuna abilità umana può portarci in contatto con Dio. Se Egli non pronuncia Se stesso in noi, non lo conosceremo più di quanto una gallina conosca il pollaio nel quale è rinchiusa per forza. La nostra scoperta di Dio è la scoperta che Dio fa di noi. Questo voleva dire Sant’Anselmo, questo voleva dire Pascal, questo voleva dire Aristea. Noi non siamo capaci a salire in Cielo, e allora è Lui che scende dal cielo e ci trova. Noi Lo conosciamo solo in quanto conosciuti da Lui. E quando Dio si fa conoscere nel cuore di un’anima, in quel momento noi abbandoniamo tutti i nostri progetti e tutti i nostri obiettivi e penetriamo nella infinita realtà, dove ci risvegliamo col nostro vero io – povero, nudo, confuso ma avvolto dall’amore. Pertanto, questa grande testimone ci insegna a prendere coscienza della nostra identità. Prendere coscienza di quanto sia alterata, da cattivi valori, la realtà nella quale viviamo; ciò ci permette di iniziare un percorso che ci porta a riconnetterci con la nostra identità di uomini, di donne, di credenti, di chiamati … di pellegrini. Oggi in una realtà artificiale nella quale vengono offerti caratteri indistinti, liquidi, sostituibili e ribaltabili, Maria Aristea ci insegna il primato della carità, poiché è nella verità della propria identità che risiede la libertà. La libertà di spendersi, di consumarsi per amore di Cristo.
In conclusione: tenerissima Maria Aristea, la tua vita è stata un atto d’amore, un atto di fede verso quel Gesù che hai amato più di te stessa. Non hai avuto il tempo neppure per riposare un po’; da piccina, in quei solitari momenti liberi, sfinita, ti addormentavi dietro una cassa posta in un angolo della trattoria, oppure ti rannicchiavi sotto il balcone per sfuggire alla vista dei più. Da sposa ti sei spesa con amore per il tuo caro marito. Madre spirituale di tanti giovani camilliani sei stata strumento di discernimento e consiglio. Accadeva, come quando da bambina, la tua mamma ti veniva a chiamare, e destatati dal sonno le rispondevi, ancora assonnata: «Mamma un altro momentino ancora, dormo in fretta, in fretta», ma poi ti alzavi ugualmente e nella tua semplicità consolante dicevi a te stessa: «Dormirò quando sarò grande!». Divenuta grande non hai avuto il tempo per dormire, e forse non lo avrai mai, perché anche dal cielo continui ad accompagnare tanti e tante figlie che vengono a bussare alla porta della tua casa e del cuore.
Già, cara Aristea non ti addormentare, tienici compagnia, cammina con noi, prendici per mano e accarezza il nostro volto, e anche quando noi cediamo al sonno della tiepidezza, svegliaci, rialzaci … portaci in Cielo.
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