di P.Giuseppe Cinà, M.I.
Problema antico e sempre nuovo, nella spiritualità cristiana, è stato e resta quello del bilanciamento tra “azione e contemplazione”. Il binomio scaturisce dal centro della fede biblica e cristiana: l’amore a Dio e l’amore al prossimo. Il vangelo di Luca combina il noto testo del Deuteronomio che prescrive di amare Dio “con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza”, aggiungendovi il comandamento dell’amore del prossimo e ne precisa il modo: “come te stesso” (Lc 10,27).
Come coniugare “azione e contemplazione”?
Nella tradizione cristiana l’espressione classica che esprime il rapporto tra i due comportamenti, fu formulata da san Benedetto nella combinazione “ora et labora”. Quando, nell’epoca moderna, in seguito al Concilio di Trento, nacquero Ordini e Congregazione religiose dedite anche al ministero attivo e ad opere sociali, la questione si pose in modo nuovo: in che maniera il religioso avrebbe ora coniugato l’intimità del rapporto con Dio con il servizio anche sociale e caritativo verso il prossimo?
Per Camillo e i suoi giovani religiosi il problema diveniva ancora più complesso, perché essi vedevano la loro missione come dedizione totale e assoluta alla cura e all’assistenza dei malati.
Venne però il momento in cui il tema s’impose anche a Camillo e ai suoi figli. “Tra il 1590 e il 1591 Roma fu duramente provata dalla carestia e dalla pestilenza. La crociata di carità aveva impegnato la nascente Congregazione sopra le sue forze. Camillo si era lanciato per primo su tutti i campi, dall’ospedale alle terme di Diocleziano, dalle grotte ai fornici del colosseo, dalle stalle all’ospizio di S. Sisto, dalle strade alle soffitte. Dietro di lui i suoi religiosi. Una quindicina vi lasciarono la vita, altri, a cominciare dal Fondatore, ne uscirono malconci. Qualcuno si disanimò. Camillo, prima perplesso poi angustiato per la sorte dei disanimati, temette…che ‘le fatiche non ripartite siano causa di non far profitto nello spirito’.
E’ di quell’anno, infatti, una lettera scritta di san Camillo al padre Oppertis superiore della comunità di Napoli nella quale, per ovviare al danno che l’eccessiva attività avrebbe potuto causare al “far profitto nello spirito”, dispone che si andasse a prestar servizio agli infermi “un giorno sì et un altro no da ciascuno…Il che non fu altro – commenta il suo primo biografo (Sanzio Cicatelli) – conforme diceva lui che assegnare un giorno à Marta, e l’altro à Maddalena, volendo esso che i suoi religiosi nel giorno che li toccava restare in casa lo spendessero tutto nelle sante lettioni, orazioni, e meditazioni pigliando forza e spirito per spendere bene e con perfezione il giorno seguente ne gli Hospedali” (Vms.,114).
Camillo interpretava il noto testo evangelico di “Marta e Maria” conforme alla mentalità del suo tempo, che vedeva una sorte di contrasto tra i due comportamenti. Di qui la drastica soluzione dell’ “un giorno a…e un giorno a…”. Che poi veniva puntualmente disattesa quando si presentavano le esigenza dei malati.
La situazione attuale
Sappiamo quanto anche oggi il binomio “azione-contemplazione” sia uno dei punti caldi della vita spirituale non solo dei religiosi e delle religiose, né solo dei sacerdoti, ma di ogni cristiano. Non si contano più gli interventi sia del Magistero della Chiesa e sia di eminenti teologi e spiritualisti, che richiamano alla necessità urgente che il credente dia spazio all’incontro intimo, profondo, prolungato con il Signore e con la sua parola. Oggi forse più che mai, in una società frenetica e scriteriata, è urgente il richiamo alla dimensione contemplativa della vita cristiana. E’ nota l’asserzione di un noto teologo del nostro tempo: “Il cristiano del ‘2000 o sarà un mistico o non sarà cristiano” (K. Rahner).
Ma forse vale la pena rileggere il brano evangelico dal quale è nata quella formulazione e darne un breve commento:
“Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, l’accolse nella sua casa. Aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti! Ma Gesù le rispose: Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria s’è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10, 38-42).
L’episodio è inserito nella sezione centrale del vangelo di Luca, che narra la salita di Gesù a Gerusalemme. Lungo il cammino, c’è chi accoglie Gesù e chi lo rifiuta, come è accaduto con il primo villaggio dei samaritani incontrato all’inizio di questo viaggio. Nel contesto immediato, il nostro brano è collocato tra la parabola del “buon Samaritano” e l’insegnamento sulla preghiera dei discepoli. Si capisce così che l’evangelista vuole chiarire proprio il senso del rapporto tra il “fare” e la “preghiera”.
Tuttavia, il tema principale del brano è quello dell’accoglienza: come accogliere Gesù? Sia Marta che Maria accolgono Gesù. Ma in maniera differente. Marta svolge un ruolo che è quello della padrona di casa, della massaia che s’adopra perché l’ospite sia ben servito e si trovi a suo agio; Maria in pratica non fa nulla, piuttosto si siede “ai piedi” di Gesù e, sottolinea l’evangelista, “ascoltava la sua parola”. L’accoglie quindi come discepola, che ascolta, medita, assimila il messaggio (Lc 2, 19.51).
E’ poi Marta che a un centro punto, provoca Gesù, perché ritiene che la sorella stia sbagliando. Anzi, pretende che sia Gesù stesso a scollare Maria dalla sua passività, perché anch’essa si dia da fare per onorare l’ospite!
E Gesù risponde. La reazione di Gesù deve essere stata una doccia fredda per Marta. Il Maestro la richiama a rivedere il senso e il motivo del suo comportamento. Questo, sia pur fatto con le migliori intenzioni, è sbagliato.
L’errore di Marta
Perché è sbagliato? Cosa intende dire Gesù con quel severo rimprovero? Per due volte Gesù ripete il nome di Marta: “Marta, Marta!…”. Che, stando alla tradizione biblica, è segno d’una chiamata urgente, o di una “ri-chiamata” perché il destinatario già era stato “chiamato” a esser profeta o discepolo, ma pare che lo abbia dimenticato…
In effetti, Marta non si sta comportando da “discepola”, ma da signora della casa, che intende servire Gesù…. L’errore però non è nel “servire” in se stesso, ma nel modo di accogliere Gesù. Il Signore qui è entrato chiaramente in veste di “Maestro”. Ma lei, “presa dai molti servizi”, non si ricorda più di essere innanzitutto e fondamentalmente “discepola”. Agisce come se a lei toccasse “fare qualcosa per Gesù”. Non si rende conto che è Gesù che è venuto per “fare qualcosa per lei” di cui lei ha assoluto bisogno, perché “senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Ha perso di vista quello che è essenziale per il/la discepolo/a: “ricevere” il dono gratuito della presenza del Maestro e Salvatore, accogliere la sua parola, la sua presenza. E’ Gesù che salva, non il discepolo che è il salvato! Marta è malata di “protagonismo”: crede di servire Gesù, mentre in effetti sta soddisfacendo se stessa, cioè il suo prepotente bisogno di “fare” e addirittura di “fare qualcosa per il Signore”!…
Con questo Gesù non vuol dire che il discepolo non deve “fare” o “servire”: la parabola del “buon Samaritano” che precede immediatamente il nostro brano, ha detto chiaramente il dovere di “servire” l’altro: “Va’ e anche tu fa lo stesso”. Dunque il cristiano deve “fare”, non deve amare ”a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità (1 Gv ,18). Non c’è perciò nessun contrasto tra il “fare” e il “contemplare” o “ascoltare la parola”. Tutt’e due gli atteggiamenti vanno coltivati e vissuti.
Il giusto rapporto tra l’ascolto della parola e l’azione
C’è però una gerarchia, dove prioritario e fondante è l’ascolto, la comprensione della parola di Gesù e la contemplazione del suo volto, l’amore da ricevere e da restituire nell’intimità di un rapporto di preghiera. Il “fare” e il “servire” nascono dallo “stare con Gesù”, ne sono il frutto. Scriveva Balthasar qualche anno fa: “tutto ciò che è fecondo socialmente, in ultima istanza scaturisce dalla solitudine della persona in Dio e con l’interesse che Dio nutre per il mondo”. Solo nello “stare ai piedi di Gesù” si comprende “l’interesse che Dio nutre per il mondo” e allora si può servire il mondo animati da quell’interesse divino, e non dalle molteplici motivazioni ambigue che pullulano nel fondo di se stessi. Quanto facilmente chiamiamo “opere di Dio” o “opere fatte per Iddio” quello che è solo smania di appagamento della nostra autoaffermazione.
Non è facile discernere le opere che il cristiano è pur chiamato a compiere, dei servizi che deve pure rendere, specialmente ai bisognosi. Ciò non è facile perché difficile è “ascoltare”. Soprattutto ascoltare la parola di Dio. E questo è paradossale, perché a noi sembra la cosa più semplice di questo mondo: ascoltare e tanto più, per un credente, ascoltare Dio che mi parla!
E invece dovrebbe farci riflettere l’insistenza con cui Gesù, riallacciandosi all’antica tradizione profetica, lamenta la nostra pervicace resistenza ad ascoltare e comprendere la sua parola. Dovremmo ogni tanto rimeditare certi passi del vangelo di Luca. Come per esempio, la parabola del seminatore, con la sottolineatura di Gesù rivolta proprio ai discepoli: “fate attenzione a come ascoltate!” (Lc 8,14).
Del resto, perché Marta comprendesse bene il senso del rapporto tra azione e contemplazione, Gesù aggiunse: “Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta”: passa, infatti, il darsi da fare per le “molte cose”, che genera preoccupazione e agitazione, e proprio per questo rischia di far perdere di vista l’essenziale. Ciò che resta e che “non sarà tolto” è non semplicemente l’amore contemplativo della vita eterna, ma questo amore contemplativo quale anima e criterio di discernimento di tutto l’operare, di tutto il ministero apostolico, di qualunque genere sia.
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