Tratto da Maria Aristea Ceccarelli. Dolore ed estasi, di Gaetano Passarelli, edizioni Velar
Ogni creatura è dotata di quelle che in antico si chiamavano virtù, e che negli artisti e nei santi raggiungono livelli di eccezionalità. L’ambiente e la famiglia concorrono spesso in modo determinante a favorirle o quantomeno a svelarle.
Leggendo gli scritti e le testimonianze dei suoi figli e figlie spirituali, si scopre che in Maria Aristea era particolarmente sviluppata la capacità alla sopportazione del dolore fisico e morale, ma quel che colpisce ancora di più è il modo in cui ne traeva gioia. Una virtù eccezionale.
Sapeva celare il dolore agli altri dietro un sorriso e una gaiezza costante, e poi intimamente lo trasformava in un sentimento di gioia, al punto di rattristarsi se non ne avesse o quantomeno si attenuasse. Quanti l’hanno conosciuta, o ne apprendono oggi l’esistenza, a giusta ragione si chiedono se può esserci una creatura che preferisca il dolore alla gioia.
La ricerca del piacere nella sofferenza sembra un tratto caratteristico della persona masochista, ma l’Aristea, per conferma unanime, non lo era. C’è forse, una spiegazione a questa sua propensione?
Si, ed è la seguente. Maria Aristea aveva acquisito sin da piccola la consapevolezza di aver un debito: il debito di giustizia verso Dio.
Il Signore, nel suo infinito amore per gli uomini, ha sacrificato il suo Figlio Unigenito, Cristo Gesù, uomo, povero, perseguitato, calunniato, condannato. Morto in croce! Questo e solo questo pensiero ha fatto preferire a Maria Aristea i dolore alla gioia, alla umiliazioni agli onori, la croce e i patire alla vita agiata e comoda, l’unione intima con il divino alla soddisfazione ed al piacere umano.
E proprio l’ambiente e la famiglia hanno concorso alla consapevolezza di questa sua capacità che con il tempo si è trasformata nella finalità della propria esistenza.
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