A 50 anni dalla promulgazione della lettera enciclica POPULORUM PROGRESSIO di papa Paolo VI (26 marzo 1967)
Ricorrono i 50 anni della grande enciclica sociale di Paolo VI, Populorum progressio (26 marzo 1967). L’asse portante di tutta l’Enciclica è lo sviluppo e qui troviamo la bellissima definizione di Paolo VI: “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”.
Come afferma Paolo VI nella Populorum progressio, uno dei compiti fondamentali degli attori dell’economia mondiale è il raggiungimento di uno sviluppo integrale e solidale per l’umanità, vale a dire, “la promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”. Tale compito richiede una concezione dell’economia che garantisca, a livello mondiale, l’equa distribuzione delle risorse e risponda alla coscienza dell’interdipendenza – economica, politica e culturale- che unisce definitivamente i popoli tra loro e li fa sentire legati ad un unico destino.
L’Enciclica di Paolo VI insiste molto sulla lotta alla povertà. Il principio della solidarietà, anche nella lotta alla povertà, deve essere sempre affiancato da quello della sussidiarietà, grazie al quale è possibile stimolare lo spirito di iniziativa, base fondamentale di ogni sviluppo socio-economico, negli stessi Paesi poveri. Ai poveri si deve guardare non come ad un problema, ma come a coloro che possono diventare soggetti e protagonisti di un futuro nuovo e più umano per tutto il mondo.
Nel pensiero sociale di Paolo VI riveste un ruolo cruciale la salvaguardia del creato, perché se l’uomo distrugge l’ambiente finisce per distruggere se stesso. Pensiero che viene ripreso con grande vigore da Papa Francesco nell’Enciclica sociale Laudato sì sulla cura della casa comune, rivolta a tutti gli uomini della terra. I cristiani oggi sono chiamati a mettersi al “servizio dell’integrazione del povero nella società e al servizio della riconciliazione nel mondo”. Perché “il messaggio del Vangelo oggi passa dalla guarigione dei corpi e dal servizio agli esseri più fragili per sfociare nella comunione dei popoli”.
E se cinquant’anni fa Papa Paolo VI indicava per l’umanità un “progresso dei popoli”, questo sviluppo deve oggi evolversi, secondo quanto invoca Papa Francesco, in una “comunione dei popoli” e la chiave per realizzarla è la Misericordia. “Come dice la parola stessa, si tratta di avere a cuore colui che vive nella miseria. Si tratta di una nuova sensibilità che si lascia toccare dall’altro e ci conduce a sviluppare un agire nuovo”.
«Lo sviluppo dei popoli, in modo particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio, è oggetto di attenta osservazione da parte della Chiesa».
Il primo paragrafo dell’Enciclica immette subito al centro del tema. Lo fa con una prospettiva storica sconosciuta sino ad allora perché prende in esame il mondo nella sua interezza. Per la prima volta i temi, i problemi e le prospettive dell’intero pianeta vengono colti in una visione globale.
Il 26 marzo 1967 Paolo VI indirizzava «a tutti gli uomini di buona volontà” la Populorum Progressio, l’enciclica dedicata al tema dello sviluppo dei popoli. Si era da poco concluso il Concilio ecumenico Vaticano II, che aveva aperto prospettive universali, per l’appunto “ecumeniche” e tra queste la speranza per la liberazione dall’arretratezza e dall’ingiustizia come presupposto fondamentale per il riconoscimento dei diritti dei poveri e degli ultimi. Poco prima della pubblicazione dell’enciclica, Paolo VI aveva istituito una speciale commissione pontificia, denominata Iustitia et pax, ispirata ad una frase del profeta Isaia, secondo cui «la pace è “opera” della giustizia» (Is 32,17).
Un segno dei tempi
Con la Populorum Progressio Paolo VI si rivolgeva a tutti gli uomini e non solo ai cristiani; trattava un tema che a certi sembrava esulare dalle normali preoccupazioni «religiose» della Chiesa. L’ambito economico e sociale fino allora era affidato dalla morale tradizionale alla responsabilità dello Stato, ma rimaneva staccato da considerazioni di tipo etico e morale.
Questa enciclica ha quindi segnato un passo nuovo nel cammino della dottrina sociale. È stata una logica deduzione della dottrina conciliare della Gaudium et Spes e della precedente dottrina sociale della Chiesa, della quale ha allargato gli orizzonti passando dalla condizione degli operai, presa in considerazione dalla Rerum Novarum, allo sviluppo dei popoli dell’intero pianeta.
L’aspirazione allo sviluppo di tutti i popoli era apparsa subito e poi si è confermata un chiaro “segno dei tempi”. Per la prima volta nella storia i temi e i problemi venivano colti in una prospettiva
planetaria, ridisegnando le dinamiche dei rapporti tra gli Stati, le popolazioni, i “mondi”.
Vivere la solidarietà
Con la Populorum Progressio Paolo VI indica lo sviluppo come il grande tema della Chiesa (quattro anni dopo, nel Sinodo del 1971, i vescovi avrebbero detto che la predicazione della giustizia era elemento costitutivo della missione della Chiesa) ma anche dell’umanità tutta sul cammino verso la pace. La pace era la vera preoccupazione anche in quel periodo storico, caratterizzato dalla “guerra fredda” tra le superpotenze, dal conflitto del Vietnam, dall’esplodere dei conflitti nel Medio Oriente. La grande novità di questa enciclica era data dalla constatazione della nuova ampiezza assunta dalla questione sociale, che non riguardava più soltanto una singola categoria, i lavoratori, o una parte di mondo, l’Occidente. Riguardava il mondo intero per quella interconnessione tra popoli sviluppati e in via di sviluppo che ormai stava diventando esperienza quotidiana grazie all’evolvere della comunicazione sociale. Da questo nuovo rapporto conseguiva l’impegno etico a vivere la solidarietà, per cui «le nazioni sviluppate hanno l’urgentissimo dovere di aiutare le nazioni in via di sviluppo».
Per Paolo VI non era sufficiente uno sviluppo qualsiasi, limitato alla sfera dell’economico; indicava uno sviluppo autenticamente umano, integrale, perché lo sviluppo delle nazioni non può prescindere dalle esigenze della solidarietà.
Lo sviluppo condizione per la pace
Un’ulteriore novità storica della Populorum Progressio è nella connessione che il Papa stabilisce tra sviluppo e pace del mondo, espressa in un principio che entrerà nella storia: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Infatti l’esigenza della giustizia sociale non potrà essere più soddisfatta se non sul piano mondiale. Disattenderla può scatenare la violenza dei poveri, quella che è stata chiamata “la rabbia dei popoli”. Non è possibile pensare allo sviluppo di un popolo se a questo si continua a negare l’accesso al commercio mondiale, oppure gli si offre solo armi per la guerra.
La radice di queste novità è una visione dell’essere umano e della società che Paolo VI trae dalla visione antropologica cristiana e dalla filosofia personalista del suo tempo: l’uomo è un essere che trascende se stesso e le sue dimensioni, perché segnato dalla somiglianza con il Dio creatore della sua libertà e dignità, un Dio che è relazione e apertura verso tutti.
Per un mondo nuovo e solidale
La Populorum Progressio, salutata come segno di speranza soprattutto in Africa e in America latina, portava in sé la forza di un’utopia: quella di credere in un nuovo mondo, in cui finalmente ai poveri della terra veniva restituita la dignità negata, assieme alla possibilità di accedere a quei beni essenziali che in tanti secoli erano stati loro sottratti dall’ingordigia dei popoli ricchi. Il senso di questa fiducia nel futuro e nella possibilità di riscatto degli emarginati si coglieva anche dalla scelta non casuale della data di pubblicazione, la domenica di Pasqua (26 marzo 1967). La Chiesa sceglieva la via dell’impegno storico, si metteva dalla parte degli ultimi, decideva essa stessa di essere povera con i poveri, fiduciosa soltanto nella forza del Vangelo piuttosto che nella ricchezza dei mezzi. Evangelizzazione e promozione umana diventano così indissociabili.
La Populorum Progressio ha indicato la strada di una fede operosa che non si spaventa della polvere della storia, che sa assumere i problemi concreti del mondo. Grazie alla Chiesa, finalmente i popoli della fame e del sottosviluppo, ridotti in questo stato dall’iniqua distribuzione delle ricchezze, irrompono sulla scena del mondo occidentale che continua ostinatamente ad essere cieco e sordo di fronte agli squilibri planetari e vuole difendere per sé le ricchezze accumulate grazie anche allo sfruttamento dei poveri e a un’economia mondiale priva di regole, se non quelle del mercato e del profitto.
Una profonda attualità
A oltre cinquant’anni dalla pubblicazione, la Populorum Progressio mostra ancora la sua profonda attualità. La globalizzazione dei mercati, un’economia spesso senza regole, la mancanza di una governance mondiale dello sviluppo equo e solidale, il profitto ritenuto la nuova divinità a cui è lecito sacrificare anche vite umane, l’idea che il mantenimento della pace non sia legato al pieno sviluppo dei popoli, ma all’uso delle armi, indicano come si siano aggravate le condizioni di disuguaglianza e siano aumentate le distanze tra Paesi ricchi e Paesi poveri. In più, nonostante il lodevole impegno di molte comunità cristiane, della società civile e di tante organizzazioni non governative, i Governi e gli Organismi internazionali non riescono a compiere scelte decisive perché lo scandalo della fame, della povertà, della morte precoce, del mancato riconoscimento dei diritti umani essenziali trovi vie praticabili di soluzione a breve e lungo termine.
È evidente che si tratta di invertire la rotta, di scegliere la strada impegnativa di un nuovo modello
di sviluppo, della cooperazione, dell’accoglienza e del dialogo tra le culture.
La validità delle proposte
Le proposte della Populorum Progressio, tuttora più valide che mai, possono essere riassunte in tre “doveri”.
La solidarietà è forse quello più facile e realizzabile. Non bastano le campagne per vincere la fame, l’analfabetismo, l’ignoranza. Vengono sì promosse, ma spesso si limitano a tamponare l’emergenza. Paolo VI ricorda che ci vogliono programmi a media e lunga scadenza per «costruire un mondo in cui ogni uomo, senza esclusioni di razza, di religione, di nazionalità possa vivere una vita pienamente umana». Ma perché questo avvenga deve crescere la solidarietà che impedisce di accumulare il superfluo e lo mette a disposizione dei popoli più deboli.
Il secondo dovere riguarda la “giustizia sociale” perché tutti i popoli possano partecipare al commercio mondiale. Le riunioni di organismi come l’Organizzazione mondiale del commercio e il
G8 che riunisce i paesi industrializzati, mostrano come sia difficile trovare un accordo che permetta
ai Paesi più poveri di entrare nel commercio mondiale senza essere sfavoriti. Soprattutto se, come puntualmente succede, i Paesi poveri sono invitati nel commercio mondiale con i loro prodotti, soprattutto agricoli, che però non riescono a vendere a causa della concorrenza dei Paesi ricchi aiutati dai loro governi con misure protezionistiche o con interventi a sostegno dei produttori che impongono i loro prodotti a prezzi competitivi… Paolo VI era stato facile profeta quando aveva affermato nella Populorum Progressio che «la legge del libero mercato non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali».
Il terzo dovere richiamato dal Papa è più attuale che mai in questo tempo della globalizzazione dell’esclusione, del terrorismo internazionale e di guerra. Paolo VI ha affermato che “il mondo è malato” non perché manchino le risorse, ma per “la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli”. Nel contempo ha proposto indicazioni valide anche oggi: l’ospitalità reciproca e l’accoglienza fraterna, il senso sociale con cui industriali, esperti e volontari dovrebbero mettersi a disposizione dei Paesi più deboli per offrire loro in maniera disinteressata il loro contributo. È quello che nella Populorum Progressio viene indicato come il dovere della carità universale. In realtà solo questa riuscirà a creare un mondo nuovo segnato dalla pace e dai “dialoghi di civiltà” che Paolo VI ha evocato: «Tra le civiltà, come tra le persone, un dialogo sincero è di fatto creatore di fraternità. L’impresa dello sviluppo ravvicinerà i popoli».
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