“Non ci siamo mai detti addio”: questo tempo resterà nella storia come il tempo dei cordogli sospesi, degli addii mancati”
di p. Arnaldo Pangrazzi
È un tempo di cordoglio anche per la Chiesa e i suoi rappresentanti che non hanno potuto esercitare pienamente il loro ministero tradizionale, dal punto di vista sia sacramentale che di accompagnamento pastorale. Mi riferisco in particolare ai cappellani che operano in diversi contesti (ospedali, RSA, reparti di psichiatria, centri per disabili, hospice e cure palliative), ma anche ai sacerdoti impegnati nelle parrocchie, e alle suore e ai diaconi coinvolti nel ministero della consolazione.
Covid-19: protagonista assoluto
Il termine “contagio”, in tempi propizi, ha connotazioni positive e lo si usa in espres-sioni come: “Una risata contagiosa”, “Contagiare entusiasmo”, “Il contagio della gio-ia o della bontà”. Significa diffondere o moltiplicare energia positiva.
Attualmente la voce “contagio” ha un significato ben diverso e vede un protagonista ben definito, il Covid-19.
Nella sua definizione etimologica, la voce contagio deriva dal latino contagium e significa “toccare”, “essere in contatto”.
Nel contesto sanitario il contagio è la trasmissione di un virus, che in latino significa “veleno”, e che può comportare conseguenze gravi, talvolta letali.
I virus o batteri sconosciuti, spesso provenienti dal mondo animale, colpiscono le cellule umane causando sintomi di varia natura e gravità: lievi, moderati o complessi.
I veicoli di trasmissione del virus includono: le feci, il sangue, il rapporto sessuale, le vie respiratorie, il contatto (incluso carezze, baci, abbracci).
Nel corso dei secoli i contagi (le pesti, il vaiolo, l’influenza spagnola, l’influenza asiatica, HIV, Ebola) hanno decimato la popolazione e cambiato il corso della storia. Il Covid-19 non è certo la peggiore pandemia abbattutasi sull’umanità, grazie alle misure di contenimento adottate dai diversi governi, ma si distingue per il suo alto livello di contagiosità e per il suo impatto planetario.
2020-2021: tappe di un viaggio con il Covid-19
Ritorniamo al significato di contagio (contatto-toccare, ma anche con-tatto), dato che questo lemma ha forte implicazioni non solo per la diffusione del virus, ma anche per le risonanze pastorali.
Cerchiamo di fare una lettura di questo evento storico, per decifrarne i segni dei tempi e discernere la presenza di Dio nell’oggi.
La metafora del viaggio aiuterà a delineare, da una parte, le emergenze causate dal contagio – a livello sanitario, sociale, economico, esistenziale – e, dall’altra, le sfide pastorali scaturite dalla crisi, soprattutto nei riguardi dei più fragili, quali i malati, gli anziani, i disabili, i morenti, le persone in lutto.
Il viaggio sarà articolato attorno a sei tappe che rappresentano luoghi del patire e dello sperare umano, ma anche provocazioni per l’agire pastorale.
Le fermate possono essere lette come stazioni della via crucis che schiudono alla risurrezione.
Il contagio della spogliazione delle false certezze.
A inizio 2020 iniziavano a circolare notizie su un virus, partito dal mercato di Wuhan, che si stava diffondendo in Cina. All’epoca si era spettatori di un allarme lontano che non ci toccava direttamente. Seduti davanti alla TV si facevano commenti sui comportamenti dei cinesi, sul loro ritmo frenetico per arginare il contagio, sulla loro intraprendenza nel costruire in pochi giorni un ospedale da campo.
Poi, con rapidità imprevedibile, il Covid-19 bussava alle porte di casa e spazzava via tante fragili sicurezze. Nel giro di qualche settimana il mondo intero era travolto e devastato dalla presenza di un virus invisibile che varcava le frontiere, incurante delle geografie, culture, colore della pelle, condizione sociale o appartenenza religiosa.
Dinanzi allo sconvolgimento operato dal contagio, la prima considerazione doverosa è di riflettere sulle false credenze cui si è spesso ancorati. Tra queste: l’illusione di ritenere che ciò che accadeva in Cina da noi non accadrà mai, così come, in altre circostanze, si coltiva l’aspettativa irrealistica che il cancro, un incidente stradale o la morte non possano colpire la nostra famiglia, perché questo sarebbe un’ingiustizia inaccettabile.
Il contagio è stato un brusco risveglio, un bagno di realismo esistenziale per sfatare i presupposti illusori e fallaci.
La sfida pastorale dettata dal virus suggerisce di evidenziare nella catechesi, nella predicazione e nel dialogo con le persone, la consapevolezza della precarietà dei beni, inclusa la salute e la vita, e di ricordare che tutto è dono prima che diritto, tutto è provvisorio prima che sicuro, tutto è mortale prima che eterno.
Il contagio della paura.
Nella sua corsa irrefrenabile il virus si è impossessato delle strade, ha paralizzato le grandi metropoli, sequestrato i teatri e gli stadi, messo in ginocchio le imprese. Il Covid-19 ha impedito ai bambini di giocare nei parchi, ai giovani di ritrovarsi con gli amici, ai maestri di incontrare i loro alunni, agli innamorati di sposarsi, alle chiese di svolgere le funzioni religiose. I grandi centri religiosi del mondo, dalla Mecca a Gerusalemme, da Roma a Bangkok, sono rimasti vuoti.
Rapidamente il Covid-19 ha diffuso il panico tra gli anziani, sovraccaricato i reparti di terapia intensiva degli ospedali, impedito ai morenti e ai familiari di dirsi addio, colmato le pagine di necrologi, riempito di bare i crematori, sottratto ai morti il diritto di essere sepolti dignitosamente.
I governi dei vari paesi hanno cercato di contrastare il suo immenso potere emanando decreti e invitando i cittadini alla massima collaborazione, attenendosi all’uso della mascherina, al frequente lavaggio delle mani, al distanziamento fisico, alla rinuncia temporanea ai propri diritti, quali la libertà di muoversi, per salvaguardare la salute propria e altrui. Le parole d’ordine, ribadite dai mass-media, erano: “Restate a casa”, “Insieme ce la faremo”.
Il sentimento onnipresente è la paura, da alcuni avvertita come comprensibile preoccupazione per mantenersi vigili e prudenti, da altri vissuta come ossessione o angoscia paralizzante. La paura svela volti diversi: c’è chi teme di essere contagiato o di contagiare, chi è preoccupato per le ricadute economiche della crisi, chi è allarmato di doversi ricoverare nei reparti di terapia intensiva, chi ha l’angoscia di morire.
La sfida pastorale è di ricordare, in primis a se stessi e poi agli altri, che non si può eliminare l’apprensione e la paura, ma occorre imparare a gestirle in maniera costruttiva.
Anche Gesù ha sperimentato la paura: basta ricordare la sua angoscia nell’Orto degli Ulivi, “In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra” (Lc 22,44). Si rivela agli apostoli, in balia delle onde, dicendo: “Coraggio, non temete” (Mc 6,50) e, prima di ascendere al Padre, li rassicura: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
L’operatore pastorale, attraverso la sua presenza o le sue parole, cerca di confortare gli smarriti con la promessa di Gesù: “Non abbiate paura, Io sono con voi sempre”. La paura si lenisce attraverso la preghiera, la respirazione profonda, la condivisione con qualcuno, il contatto con la natura, l’ascolto della Parola, l’affidamento a Dio.
Il contagio della fragilità e dell’impotenza.
Metà della popolazione mondiale è agli “arresti domiciliari” e intere nazioni sono sottoposte ad un difficile coprifuoco, mentre le piazze sono pattugliate dalle forze dell’ordine, per garantire il rispetto delle disposizioni. Il dilagare del contagio ha reso necessario chiudere bar e ristoranti, interrompere le scuole, limitare gli sposta-menti, installare termo scanner nelle case di cura per anziani, nei centri per disabili, negli ospedali.
L’azione travolgente del virus ha demolito i miti dell’autosufficienza, onnipotenza, produttività e imposto una riflessione sul tema dei limiti, della precarietà, dell’im-potenza. Siamo passati dalla medicina dei miracoli alla medicina dei limiti. Gli sforzi ingenti per la ricerca di un vaccino non hanno placato l’incremento impressionante dei contagi e dei decessi. Si vive “sospesi” nel tempo, tra il travaglio doloroso del presente e l’attesa tormentata di un futuro migliore.
Nel frattempo, la gratitudine dei cittadini si rivolge a coloro che, in prima linea (medici, infermiere, virologi, operatori nelle ambulanze…), si adoperano per salvare vite e confortare gli afflitti.
Anche la Chiesa è immersa nello sconfinato mare dell’impotenza e della vulne-rabilità. Per arginare il contagio, anche le guide religiose hanno umilmente aderito alle direttive del governo sospendendo le funzioni pubbliche, posticipando le celebrazioni di matrimoni, battesimi, prime comunioni, cresime e funerali. Si tratta di una scelta dolorosa e prolungata con strascichi di ferite, comprensibili sensi di colpa, smarrimento spirituale.
A livello pastorale, questo “segno dei tempi” ha costretto la Chiesa a fare i conti con il suo duplice ruolo di “aiutante e aiutata”, “guaritrice e malata”, “consolatrice e consolata”.
Potremmo parlare di una Chiesa in trincea, costretta a rinunciare al suo tradizionale ruolo di prossimità a servizio dei deboli e dei feriti, per vegliare nel silenzio e nell’oscurità, come gli apostoli nel cenacolo, in attesa della luce. Un’immagine emblematica della “Chiesa dolens” è rappresentata dal Papa Francesco che attraversa da solo la piazza san Pietro per pregare ai piedi del crocifisso, in unione con l’um-anità ferita. In un certo senso, il virus ha mortificato la Chiesa rendendola un’ancella secondaria della scienza, una comunità frenata nell’esercitare i ministeri della diakonia, leitourgia e koinonia.
Sacerdoti e cappellani hanno fatto fatica a digerire la percezione di una presenza non essenziale, sofferto il dover limitare o rinunciare al conforto spirituale ai malati e ai morenti. Nella pandemia i pastori hanno recuperato il valore dell’ ”essere con” i feriti, attraverso la comunione spirituale, la paziente attesa, l’affidamento alla grazia, invece di dipendere dal “fare”.
Il contagio della solitudine.
Lo sconquasso del Covid ha inevitabilmente accresciuto il tasso di solitudine umana, specie nelle RSA e nei reparti di terapia intensiva, interdetti oltre che ai familiari, anche agli psicologi, agli assistenti sociali, ai cappellani e ai volontari.
Le restrizioni imposte, sempre per prevenire il contagio, hanno privilegiato l’atten-zione alla salute biologica, ma messo a soqquadro il bene globale degli anziani e dei morenti, privati del conforto affettivo dei propri cari e del sostegno religioso nei momenti critici.
La doverosa, ma controversa strategia sanitaria, comprensibile per un verso, ha disu-manizzato il morire e creato struggenti traumi umani i cui effetti sulla salute si vedranno nel futuro. Si pensi ai lunghi “digiuni affettivi” per anziani e morenti, ai “tanti addii” mai detti del fine vita, ai lutti sospesi dei superstiti.
In questi mesi un fiume di solitudine ha attraversato l’esistenza di tanti nonni, derubati del diritto di vedere e abbracciare i propri nipotini, di vedovi rimasti soli all’improvviso, di giovani privati del contatto con gli amici.
È una solitudine sperimentata anche da medici e infermiere nel dover interpretare accanto agli infermi tanti ruoli (di familiare, psicologo, assistente spirituale), ma sentendosi inadeguati per limiti di tempo, spossatezza, incapacità personali. Solitudine avvertita talvolta anche dai sacerdoti, specie se soli e anziani, per non aver nessuno con cui parlare, nessuno interessato a loro.
Giacomo Leopardi scriveva che “La solitudine è come una lente d’ingrandimento: se sei solo e stai bene, stai benissimo; se sei solo e stai male, stai malissimo”. Anche per i pastori la sfida basilare è di imparare a star bene con sé stessi, quale condizione per star bene con il mondo esterno. Inoltre, il Covid ha costretto i testimoni della Chiesa a riconciliarsi con la propria povertà, con le limitazioni del proprio intervento pastorale, per affidarsi al potere della grazia, che opera nei meandri misteriosi dei vissuti umani.
Sul versante pratico, l’isolamento imposto dalla pandemia ha permesso a molti operatori pastorali di riposarsi, rigenerarsi, riordinare le proprie cose, magari rivedere gli album di fotografie o liberarsi di cose inutili. Inoltre, il digiuno dalle attività esterne ha offerto opportunità per leggere, ascoltare musica, meditare sul valore del tempo, assaporare i benefici della lentezza, rendere fecondo il silenzio, restare uniti nella preghiera con i sofferenti.
Il contagio della solidarietà e della misericordia.
Il ciclone che ha scompaginato il mondo, ha risvegliato un senso di fratellanza e di solidarietà universale, e di questo spirito si è fatto interprete Papa Francesco nella recente enciclica “Fratelli Tutti” (ottobre 2020).
Nei primi mesi della pandemia, i segni di questa fratellanza erano simboleggiati dalle musiche che risuonavano dai balconi delle case, dall’intrattenimento offerto dai cantanti in Tv, dal riscatto dell’orgoglio nazionale attraverso viaggi on-line per scoprire le ricchezze artistiche dei nostri musei e paesaggi, dai video umoristici disseminati per sostenere il morale, dallo sfrecciare delle frecce tricolori. Inoltre, sono espressioni di impegno solidale i cittadini osservanti delle disposizioni, i trasportatori di viveri e merci, gli impiegati dei supermercati, coloro che offrono alloggio gratis ai medici provenienti da altre regioni. Volti della solidarietà sono considerati i volontari che portano la spesa e i farmaci agli anziani, chi comunica via social con i disabili, i consolatori degli afflitti.
La pandemia, insieme ai danni, ha regalato insegnamenti e lezioni preziose: si è meno autoreferenziali e più comunitari, meno menefreghisti e più responsabili, meno frenetici e più riflessivi, meno “io” e più “noi”, meno presuntuosi e più umili. Anche nella scala dei valori, il profitto e l’economia hanno ceduto il passo alla salute e alla solidarietà.
Le diverse confessioni religiose, che hanno a cuore i poveri e gli emarginati, hanno sostenuto la globalizzazione della solidarietà come missione comune. Anche molti operatori pastorali hanno esplorato nuovi spazi di prossimità ai sofferenti utilizzando i mezzi di comunicazione sociale (video, articoli, preghiere…), facendo appello alla creatività stimolata dall’avversità. Alcuni sacerdoti hanno celebrato messe dai tetti per i parrocchiani, qualche cappellano ha escogitato modalità per rendersi presente nelle terapie intensive o per raggiungere i pazienti con messaggi dal cellulare, altri si sono proposti con lezioni o conferenze on-line.
I luoghi tradizionalmente deputati all’incontro comunitario, quali la Chiesa, ma anche i ristoranti, le carceri, le discoteche e gli stadi sono diventati i super diffusori del Covid. Di conseguenza, il concetto di koinonia si è spostato dalla parrocchia alla comunità fluttuante della condivisione e formazione on-line, generando opportunità innovatrici di evangelizzazione, riflessione e crescita spirituale.
Il contagio della spiritualità e della speranza.
Il Covid-19 ha disseminato rovine un po’ ovunque, accrescendo l’instabilità mentale di alcune persone, stressando molte famiglie con bambini, acutizzando i dissidi di coppia o provocando separazioni, incrementando la povertà nel mondo, facendo fallire aziende private, creando dissesti finanziari e mostruosi indebitamenti.
Eugène Delacroix scriveva che “L’avversità restituisce agli uomini tutte le virtù che la prosperità toglie loro”. La pandemia può tramutarsi in Kairos, in occasione per tirar fuori “ex malo bonum”, per trasformare la “disgrazia” in “grazia”.
Del resto, non si possono ignorare gli indubbi benefici scaturiti dalla crisi, tra cui: la diminuzione dello smog, un pianeta più pulito, meno furti nelle case, un’accresciuta consapevolezza dell’universalità, un consolidamento dei legami familiari, una maggiore versatilità nell’uso della tecnologia e formazione on-line, un più sentito bisogno di spiritualità.
Il confinamento e il rallentamento dell’attività hanno fatto germogliare in molti il desiderio di interiorità, un uso saggio del tempo, la riscoperta del valore sanante della natura e del silenzio, il ruolo della famiglia nell’educazione alla fede, l’inse-gnamento impartito dall’invisibile Covid sullo sconfinato potere di “ciò che è debole e può confondere i forti”, l’accresciuta coscienza della provvisorietà e della morta-lità, la ricerca dell’essenziale nella vita.
Molti hanno riferito che durante la pandemia la preghiera (tradizionale, biblica o spontanea) è rimasta il filo rosso che ha unito le persone, un’energia spirituale che ha legato l’uomo al divino, un farmaco che ha confortato i sani e i malati, gli aiutanti e le persone in lutto. Kierkegaard puntualizzava il vero miracolo della preghiera: “La preghiera non cambia Dio, ma cambia colui che prega”.
Un’altra voce importante del vocabolario spirituale è la speranza. La voce speranza, dal latino “spes” significa guardare verso una mèta: i primi cristiani la rappresentano come un’ancora di salvezza cui aggrapparsi. La speranza è come il sangue, non si vede, ma scorre dentro; Louis Dumur suggerisce che “la speranza è la morfina della vita”.
La speranza è il naturale antidoto alla paura. Per alcuni la speranza è non cedere alla disperazione, saper rialzarsi dopo essere caduti; per altri è guardare alle cose con occhi diversi, trovare insegnamenti positivi in mezzo alle contrarietà, credere nella presenza misteriosa di Dio nelle vicende umane. Per altri ancora, la speranza è guarire da una malattia, portare a termine un progetto, congedarsi serenamente dal mondo.
Anche l’angoscia del morire si supera collocando la propria storia al di là di sé stessi: c’è chi vede l’immortalità nella continuità dei figli e nipoti, chi nell’eredità morale di valori ed esempi trasmessi, chi nella certezza dell’indistruttibilità dello spirito, fidandosi della promessa di Cristo: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11,25).
A livello pastorale, i ministri della Chiesa sono annunciatori di speranza, rappresentando Dio nei momenti bui della vita: nel decorso di una grave malattia, nelle camere mortuarie, nei funerali, nella stagione del cordoglio.
Il sacerdote si rende presente nel venerdì santo delle persone, per esprimere vicinanza, ma anche per ricordare che la morte non ha l’ultima parola, ma la penultima, perché in Cristo risorto anche noi risorgeremo.
Conclusione
Willa Cather diceva che “Ci sono cose che si imparano meglio nella calma, altre nella tempesta”. La pandemia è stata un prolungato bagno di umiltà, ma anche di accresciuta umanità.
Il Coronavirus è sfuggito al potere della scienza e al controllo delle multinazionali, ma la sua presenza ha bonificato l’anima, guidato a riscoprire i valori essenziali. Il futuro permane incerto, ma la sua forma dipenderà dalle lezioni apprese da questo insegnante rigoroso chiamato Covid-19.
Anche la pastorale è rimasta avvolta in questo battesimo di sangue, spogliata della sua visibilità, purificata nella sua essenzialità. Molti operatori pastorali hanno attivato la creatività per gestire i limiti, l’amore per superare gli ostacoli, la speranza per attraversare i disagi, la fede per credere nel futuro.
Siamo ancora nella tempesta, ma pian piano questa si placherà e ogni persona, comu-nità e nazione dovrà gradualmente cicatrizzare le ferite, recuperare la prossimità, salutare la libertà.
L’auspicio è che quanto accaduto ispiri ciascuno, in particolare i sacerdoti e le suore, ad essere testimoni di saggezza e spiritualità, padrini nel battesimo di un nuovo spirito di fratellanza, seminatori di speranza nel mondo che verrà.
[1] Arnaldo Pangrazzi “L’impatto della pandemia. Sfide pastorali accanto a chi soffre” in Testimoni (mensile di informazione spiritualità e vita consacrata” febbraio 2021, p.8-12.
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