Udienza ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica
Alle ore 10.30 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i partecipanti al Convegno internazionale dal titolo “Consecratio et consecratio per evangelica consilia. Riflessioni, questioni aperte, cammini possibili”, promosso dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che si svolge a Roma presso la Pontificia Università Antonianum dal 3 al 6 maggio
Pubblichiamo il discorso che il Papa ha rivolto a braccio ai presenti nel corso dell’incontro:
Discorso del Santo Padre
Buongiorno a tutti!
Io ho pensato se fare un discorso, ben fatto, bello… Ma poi mi è venuto in mente di parlare a braccio, di dire le cose che sono adatte per questo momento.
La chiave di quello che dirò è quello che ha chiesto il Cardinale [Prefetto della Congregazione]: criteri autentici per discernere quello che sta succedendo. Perché davvero, oggi succedono tante cose che, per non perdersi in questo mondo, nella nebbia della mondanità, nelle provocazioni, nello spirito di guerra, tante cose, abbiamo bisogno di criteri autentici che ci guidino. Che ci guidino nel discernimento.
Poi, c’è un’altra cosa: che questo Spirito Santo è una calamità [ride, ridono], perché non si stanca mai di essere creativo! Adesso, con le nuove forme di vita consacrata, davvero è creativo, con i carismi… È interessante: è l’Autore della diversità, ma allo stesso tempo il Creatore dell’unità. Questo è lo Spirito Santo. E con questa diversità di carismi e tante cose, Lui fa l’unità del Corpo di Cristo, e anche l’unità della vita consacrata. E anche questa è una sfida.
Mi sono domandato: quali sono le cose che lo Spirito vuole si mantengano forti nella vita consacrata? E il pensiero è volato, è andato, ha girato…, e mi veniva sempre [in mente] il giorno che sono andato a San Giovanni Rotondo: non so perché, ma ho visto lì tanti consacrati e consacrate che lavorano… e ho pensato a cosa ho detto lì, alle “tre p” che ho detto lì. E mi sono detto: queste sono colonne che rimangono, che sono permanenti nella vita consacrata. La preghiera, la povertà e la pazienza. E ho scelto di parlarvi di questo: cosa penso che sia la preghiera nella vita consacrata, e poi la povertà e la pazienza.
La preghiera è tornare sempre alla prima chiamata. Qualsiasi preghiera, forse una preghiera nel bisogno, ma sempre è ritornare a quella Persona che mi ha chiamato. La preghiera di un consacrato, di una consacrata è tornare dal Signore che mi ha invitato a esserGli vicino. Tornare da Lui che mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “Vieni. Lascia tutto e vieni” – “Ma, io vorrei lasciare la metà…” (di questo parleremo a proposito della povertà) – “No, vieni. Lascia tutto. Vieni”. E la gioia in quel momento di lasciare il tanto o il poco che noi avevamo. Ognuno sa cosa ha lasciato: lasciare la mamma, il papà, la famiglia, una carriera… È vero che qualcuno cerca la carriera “dentro”, e questo non è buono. In quel momento trovare il Signore che mi ha chiamato a seguirLo da vicino. Ogni preghiera è tornare a questo. E la preghiera è quello che fa che io lavori per quel Signore, non per i miei interessi o per l’istituzione nella quale lavoro, no, per il Signore. C’è una parola che si usa tanto, è stata usata troppo e ha perso un po’ di forza, ma indicava bene questo: radicalità. A me non piace usarla perché è stata troppo usata, ma è questo: lascio tutto per Te. È il sorriso dei primi passi… Poi sono arrivati dei problemi, tanti problemi che tutti noi abbiamo avuto, ma sempre si tratta di tornare all’incontro con il Signore. E la preghiera, nella vita consacrata, è l’aria che ci fa respirare quella chiamata, rinnovare quella chiamata. Senza quest’aria non potremmo essere buoni consacrati. Saremmo forse buone persone, cristiani, cattolici che lavorano in tante opere della Chiesa, ma la consacrazione tu devi rinnovarla continuamente lì, nella preghiera, in un incontro con il Signore. “Ma sono indaffarato, sono indaffarata, ho tante cose da fare…”. Più importante è questo. Vai a pregare. E poi c’è quella preghiera che ci mantiene durante la giornata alla presenza del Signore. Ma comunque la preghiera. “Ma io ho un lavoro troppo rischioso che mi prende tutta la giornata…”. Pensiamo a una consacrata dei nostri giorni: Madre Teresa. Madre Teresa andava anche a “cercarsi dei problemi”, perché era come una macchina per cercarsi dei problemi, perché si metteva di qua, di là, di là… Ma le due ore di preghiera davanti al Santissimo, nessuno gliele toglieva. “Ah, la grande Madre Teresa!”. Ma fai come faceva lei, fa’ lo stesso. Cerca il tuo Signore, Colui che ti ha chiamato. La preghiera. Non solo al mattino… Ognuno deve cercare come farla, dove farla, quando farla. Ma farla sempre, pregare. Non si può vivere la vita consacrata, non si può discernere ciò che sta accadendo senza parlare con il Signore.
Non vorrei parlare oltre su questo, ma avete capito bene, credo. Preghiera. E la Chiesa ha bisogno di uomini e donne che preghino, in questo momento di tanto dolore nell’umanità.
La seconda “p” è la povertà. Nelle Costituzioni, Sant’Ignazio a noi Gesuiti aveva scritto questo – ma non era una cosa originale sua, credo, l’aveva presa dai Padri del Deserto, forse –: “La povertà è la madre, è il muro di contenimento della vita consacrata”. È “madre”. Interessante: lui non dice la castità, che forse è più collegata alla maternità, alla paternità, no: la povertà è madre. Senza povertà non c’è fecondità nella vita consacrata. Ed è “muro”, ti difende. Ti difende dallo spirito della mondanità, certamente. Noi sappiamo che il diavolo entra dalle tasche. Tutti noi lo sappiamo. E le piccole tentazioni contro la povertà sono ferite all’appartenenza al corpo della vita consacrata. Povertà secondo le regole, le costituzioni di ogni congregazione: non è la stessa, la povertà di una congregazione o dell’altra. Le regole dicono: “La nostra povertà va da questa parte”, “la nostra va da quella”, ma sempre lo spirito di povertà c’è. E questo non si può negoziare. Senza povertà noi non potremo mai discernere bene cosa sta accadendo nel mondo. Senza lo spirito di povertà. “Lascia tutto, dai ai poveri”, ha detto il Signore a quel giovane. E quel giovane siamo tutti noi. “Ma io no, padre, non ho tanta fortuna [ricchezza]…”. Si, ma qualcosa, qualche attaccamento ce l’hai! Il Signore ti chiede quello: quello sarà “l’Isacco” che tu devi sacrificare. Nudo nell’anima, povero. E con questo spirito di povertà il Signore ci difende – ci difende! – da tanti problemi e da tante cose che cercano di distruggere la vita consacrata.
Ci sono tre scalini per passare dalla consacrazione religiosa alla mondanità religiosa. Sì, anche religiosa; c’è una mondanità religiosa; tanti religiosi e consacrati sono mondani. Tre scalini. Primo: i soldi, cioè la mancanza di povertà. Secondo: la vanità, che va dall’estremo di farsi “pavone” a piccole cose di vanità. E terzo: la superbia, l’orgoglio. E da lì, tutti i vizi. Ma il primo scalino è l’attaccamento alle ricchezze, l’attaccamento ai soldi. Vigilando su quello, gli altri non vengono. E dico alle ricchezze, non solo ai soldi. Alle ricchezze. Per poter discernere cosa sta succedendo, ci vuole questo spirito di povertà. Un compito a casa è: come è la mia povertà? Guardate nei cassetti, nei cassetti delle vostre anime, guardate nella personalità, guardate nella Congregazione… Guardate come va la povertà. È il primo scalino: se noi custodiamo quello, gli altri non vengono. È il muro che ci difende dagli altri, è la madre che ci fa più religiosi e ci fa mettere tutta la nostra ricchezza nel Signore. È il muro che ci difende da quello sviluppo mondano che tanto danneggia ogni consacrazione. La povertà.
E terzo, la pazienza. “Ma, padre, cosa c’entra la pazienza, qui?”. È importante la pazienza. Noi abitualmente non ne parliamo, ma è molto importante. Guardando Gesù, la pazienza è quello che ha avuto Gesù per arrivare fino alla fine della sua vita. Quando Gesù, dopo la Cena, va all’Orto degli Ulivi, possiamo dire che in quel momento in modo speciale Gesù “entra in pazienza”. “Entrare in pazienza”: è un atteggiamento di ogni consacrazione, che va dalle piccole cose della vita comunitaria o della vita di consacrazione, che ognuno ha, in questa varietà che fa lo Spirito Santo… Dalle piccole cose, dalle piccole tolleranze, dai piccoli gesti di sorriso quando ho voglia di dire delle parolacce…, fino al sacrificio di sé stessi, della vita. Pazienza. Quel “portare sulle spalle” (hypomoné) di San Paolo: San Paolo parlava di “portare sulle spalle”, come virtù cristiana. Pazienza. Senza pazienza, cioè senza capacità di patire, senza “entrare in pazienza”, una vita consacrata non può sostenersi, sarà a metà. Senza pazienza, per esempio, si capiscono le guerre interne di una congregazione, si capiscono. Perché non hanno avuto la pazienza di sopportarsi l’un l’altro, e vince la parte più forte, non sempre la migliore; e anche quella che è vinta, neppure è la migliore, perché è impaziente. Senza pazienza, si capiscono questi carrierismi nei capitoli generali, questo fare le “cordate” prima… per fare due esempi. Voi non sapete la quantità di problemi, di guerre interne, di liti che arrivano da Mons. Carballo! [Segretario della Congregazione]. Ma lui è della Galizia, lui è capace di sopportare questo! Pazienza. Sopportarsi l’un l’altro.
Ma non solo pazienza nella vita comunitaria: pazienza davanti alle sofferenze del mondo. Portare sulle spalle i problemi, le sofferenze del mondo. “Entrare in pazienza”, come Gesù è entrato in pazienza per consumare la redenzione. Questo è un punto-chiave, non solo per evitare queste liti interne che sono uno scandalo, ma per essere consacrato, per poter discernere. La pazienza.
E anche pazienza davanti ai problemi comuni della vita consacrata: pensiamo alla scarsità di vocazioni. “Non sappiamo cosa fare, perché non abbiamo vocazioni… Abbiamo chiuso tre case…”. Questa è lamentela di ogni giorno, voi l’avete sentito, sentito nelle orecchie e sentito nel cuore. Non vengono le vocazioni. E quando non c’è questa pazienza… Questo che dico adesso è accaduto, accade: io conosco almeno due casi, in un Paese troppo secolarizzato, che riguardano due congregazioni e due rispettive province. La provincia ha incominciato quel cammino che è pure un cammino mondano, dell’“ars bene moriendi”, l’atteggiamento per morire bene. E cosa significa questo in quella provincia, in quelle due province di due congregazioni diverse? Chiudere l’ammissione al noviziato, e noi che siamo qui invecchiamo fino alla morte. E la congregazione in quel posto è finita. E queste non sono favole: sto parlando di due province maschili che hanno fatto questa scelta; province di due congregazioni religiose. Manca la pazienza e finiamo con l’“ars bene moriendi”. Manca la pazienza e non vengono le vocazioni? Vendiamo e ci attacchiamo ai soldi per qualsiasi cosa possa succedere in futuro. Questo è un segnale, un segnale che si è vicini alla morte: quando una Congregazione incomincia ad attaccarsi ai soldi. Non ha la pazienza e cade nella seconda “p”, nella mancanza di povertà.
Posso domandarmi: questo che è accaduto in quelle due province che hanno fatto l’opzione dell’“ars bene moriendi”, accade nel mio cuore? La mia pazienza è finita e vado avanti sopravvivendo? Senza pazienza non si può essere magnanimi, non si può seguire il Signore: ci stanchiamo. Lo seguiamo fino a un certo punto e alla prima o alla seconda prova, ciao. Scelgo l’“ars bene moriendi”; la mia vita consacrata è arrivata fino a qui, qui chiudo il cuore e sopravvivo. È in stato di grazia, sì, certamente. “Padre, non andrò all’inferno?” No, forse non andrai. Ma la tua vita? Hai lasciato la possibilità di essere padre e madre di famiglia, di avere la gioia dei figli, dei nipotini, tutto questo, per finire così? Questa “ars bene moriendi”, è l’eutanasia spirituale di un cuore consacrato che non ce la fa più, non ha il coraggio di seguire il Signore. E non chiama…
Ho preso come punto di partenza per parlare di questo la scarsità delle vocazioni: questo amareggia l’anima. “Non ho discendenza”, era il lamento del nostro padre Abramo: “Signore, le mie ricchezze saranno ereditate da uno straniero”. Il Signore gli ha detto: “Abbi pazienza. Avrai un figlio” – “Ma a 90 anni?”, e la moglie dietro la finestra che era come – scusatemi – come le donne: spiava dalla finestra – ma è una qualità delle donne, questa, sta bene, non sta male –; sorrideva, perché pensava: “Ma io, a 90 anni? E mio marito, quasi 100, avremo un figlio?”. “Pazienza”, ha detto il Signore. Speranza. Avanti, avanti, avanti.
State attenti su queste tre “p”: la preghiera, la povertà e la pazienza. State attenti. E credo che piaceranno al Signore scelte – mi permetto la parola che non mi piace – scelte radicali in questo senso. Siano personali, siano comunitarie. Ma scommettere su questo.
Vi ringrazio per la pazienza che avete avuto per ascoltare questo sermone [ridono, applausi]. Vi ringrazio. E vi auguro fecondità. Mai si sa per quali vie passa la mia fecondità, ma se tu preghi, se sei povero, se sei paziente, stai sicuro che sarai fecondo. Come? Il Signore te lo farà vedere “dall’altra parte”; ma è la ricetta per essere fecondo. Sarai padre, sarai madre: la fecondità. È quello che auguro alla vita religiosa, di essere fecondi.
Grazie! Continuate a studiare, a lavorare, a fare delle proposte buone, ma che sempre siano con quello sguardo che Gesù vuole. E quando penserete alla prima “p”, pensate a me e pregate per me. Grazie!
Adesso preghiamo la Madonna: “Ave o Maria, …”
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