Sessa Aurunca 18 aprile 2016)
Luciano Sandrin, camilliano
Siamo invitati, ancora oggi, ad esprimere la nostra misericordia attraverso le opere di misericordia corporale e spirituale. «Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina» (Papa Francesco). Le opere di misericordia corporale sono: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire quelli che sono nudi, accogliere i forestieri, visitare gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E queste sono le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i defunti.
«Siate misericordiosi, come i Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). L’invito di Gesù esprime con chiarezza la possibilità per ognuno di noi di partecipare alla misericordia di Dio. «Misericordioso e compassionevole» è il nome di Dio, «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6; Sal 86,15; 103,8; 111,4, ecc.). Gesù ha dato un volto umano a tale misericordia-compassione, l’ha testimoniata nella sua vita e oggi chiede a noi di essere questo «volto» misericordioso e compassionevole attraverso la concretezza delle opere. Il testo biblico da cui derivano le opere di misericordia corporale è il Discorso che Gesù farà nel momento del giudizio finale, come è narrato nel Vangelo di Matteo al capitolo 25, con l’aggiunta della sepoltura dei morti attestata nel libro di Tobia. Le opere di misericordia hanno ancora la loro piena attualità, ma vanno aggiornate nella loro applicazione. Analizziamo oggi le opere di misericordia corporali.
Dar da mangiare a chi ha fame. Non possiamo vivere senza mangiare. Eppure molti, ancora oggi, non possono soddisfare la loro fame mentre altri sprecano il cibo in gran quantità. E il volto di bambini denutriti ci spacca il cuore e diventa una coinvolgente domanda che spesso noi giriamo ad altri. La rivolgiamo anche a Dio, perché intervenga a risolvere il grosso problema della fame nel mondo. Ma la sua strategia chiama in causa la nostra responsabilità, la nostra collaborazione e “con-divisione”. Come nella moltiplicazione dei pani e dei pesci narrata dai vari evangelisti.
Dar da bere a chi ha sete. Non possiamo vivere senz’acqua: per tenerci puliti, per cucinare il cibo ma anche per dissetare la nostra sete e per nutrirci. È quindi importante farne tesoro: usarla bene, non inquinarla e non disperderla. Offrire qualcosa da bere all’altro è una squisita forma di ospitalità e di attenzione. La sete può essere anche immagine di desideri più profondi. Ne è un bel esempio il dialogo di Gesù con la samaritana al pozzo (Gv 4,5-30). Se è importante dare l’acqua di cui il corpo ha sete è altrettanto importante soddisfare la sete del cuore: sete di amore, di tenerezza e di comprensione. Il problema dell’acqua ci implica tutti, come singoli e come comunità, e la risposta non può che essere corale.
Vestire chi è nudo. Molti di noi offrono abiti, anche nuovi, per aiutare quelli che, per povertà o per improvvise tragedie, si trovano da un momento all’altro completamente nudi e indifesi. Ma dovremmo anche preoccuparci che le persone abbiano la possibilità di lavorare e di guadagnarsi quanto serve per procurarsi il vestito per loro e per i loro famigliari. L’invito a questa opera di misericordia vuol dire anche vestire del nostro rispetto gli altri e far ritrovare dignità a chi l’ha perduta. Vestire o rivestire una persona è riconoscere un valore che va tutelato e difeso non solo dagli attacchi del freddo ma anche dalle violenze cui la vita la espone.
Accogliere gli stranieri. Parlare di accoglienza significa risvegliare la pratica dell’ospitalità trasversale alle varie culture lungo la storia e nei vari luoghi di questo mondo. Il ricordo va alla storia di Abramo che accoglie tre visitatori che si rivelano dei messaggeri di Dio e lo ricambiano con il dono di un lieto messaggio: un figlio da sua moglie Sara, anche se avanti negli anni, e una grande discendenza (Gen 18,1-18). Accogliere gli stranieri, quelli che fuggono dai percoli di morte, – come le guerre, le persecuzioni, la mancanza di acqua e di cibo, e da altre violenze, – ha assunto oggi una dimensione sociale e politica, mettendo a nudo problemi di comprensione e integrazione tra persone di culture diverse, reali possibilità di accoglierli e di offrire loro una vita dignitosa, avere un lavoro e un futuro più sereno per loro e le loro famiglie.
Visitare i malati e prendersi cura di loro. La visita è importante ma va oltre l’avvicinarsi fisicamente a qualcuno: è interessarsi di lui, entrare nel suo territorio umano e spirituale, offrirsi di fare quanto ci è possibile per prenderci cura di lui e aiutarlo. Ogni persona malata è un mistero. Per questo è importante entrare nella sua vita con rispetto, senza indebite curiosità e invasioni, levandoci i sandali per non calpestare un terreno che è sacro e che ci rivela non solo qualcosa dell’altro ma anche qualcosa di importante di noi stessi. Nel visitare il malato siamo suoi ospiti, a casa sua, e sarà lui ad aprire la sua vita, lasciarci entrare e farci conoscere anche le regole di una buona “con-vivenza” con lui. Visitare il malato, interessarsi di lui, vuol dire impegnarsi perché tutti abbiano le cure di cui hanno diritto, anche quando non le possono pagare. La compassione si fa azione politica e sociale. Per aiutare la persona malata è importante, però, prendersi cura anche della sua famiglia e dei problemi che deve vivere, anche per lunghi periodi.
Visitare i carcerati. L’invito di andare a trovare i carcerati è un invito a rinunciare ai nostri giudizi. Non tocca a noi giudicare. Tra l’altro, a volte, chi è lì è innocente e magari lo si scopre dopo anni di detenzione e a volte, dove c’è la pena di morte, quando ormai è troppo tardi. La visita crea legami dove c’è isolamento e affetto dove c’è solitudine. L’invito a visitare i carcerati è anche un invito a fare in modo che le loro condizioni di vita siano dignitose, umane. Sono persone che hanno bisogno di rispetto e di fiducia. E questo può passare anche attraverso l’istruzione, l’apprendimento di un lavoro e il suo esercizio anche mentre sono in carcere. Ritrovano così la voglia di cambiare e rinasce in loro la speranza. Dovremmo fare lo sforzo di vedere il mondo dall’altra parte delle sbarre, senza condannare o giustificare ma solo per capire e aiutare.
Seppellire i morti senza rimuovere la morte. Il modello è il vecchio Tobi che, nel libro di Tobia, racconta come ha sempre aiutato i fratelli in difficoltà, e seppellito i loro corpi gettati in qualche modo dietro le mura di Ninive (Tb1,17). In tutte le culture e le religioni ci sono rituali diversi per la sepoltura e per dare l’ultimo saluto ai morti: segno di rispetto di quel corpo che abbiamo amato, anche abbracciato e baciato, assicurazione che i propri cari non vengono dimenticati e che, in qualche modo, continueranno a vivere, anche se in modo nuovo, nel nostro ricordo, nel nostro amore e in qualche posto dai nomi e dalle caratteristiche diverse. Quando non si può dire addio alla persona cara, al suo corpo, e non c’è un luogo (una tomba) dove poterlo piangere e fare lutto, rimane un grande vuoto e un grande dolore. Seppellire i morti deve renderci attenti a non “seppellire” e rimuovere la morte dalla nostra vita e nell’accompagnare chi muore rispettandone la dignità. Ma seppellire i morti vuol dire anche “lasciarli andare”, fare lutto della loro presenza fisica ed elaborare nuovi modi di esprimere verso di loro il nostro legame d’amore.
La fantasia della carità. La vera carità si apre per sua natura al servizio universale, proiettandoci nell’impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano. Le opere di misericordia corporali ne sono una valida espressione e una concreta testimonianza. Sono ancora tanti, nel nostro tempo, i bisogni che interpellano la nostra misericordia e la nostra compassione. Giovanni Paolo II ci ricordava che oggi, in questo nuovo millennio, è l’ora di una nuova «fantasia della carità», che si esprima non solo nell’efficacia dei soccorsi prestati, ma soprattutto nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, in modi vecchi e nuovi, così che la carità delle opere assicuri una forza inequivocabile alla carità delle parole.
Nel parlare delle opere di misericordia è possibile parlare anche di un rovescio della medaglia: Il dar da mangiare agli affamati si ribalta nell’esigenza di sottoalimentare chi mangia troppo; il dar da bere agli assetati si inverte nell’aiutare i bevitori a riprendere il controllo della loro sete; il vestire coloro che sono nudi diventa resistere ai condizionamenti della moda; l’accogliere gli stranieri significa anche non respingere gli immigrati; visitare i malati comporta non solo dare ma anche ricevere e imparare da loro; il visitare i carcerati si trasforma nel non aggiungere pena a punizione; il seppellire i morti ci ricorda il dovere di non abbandonare chi muore.
Per approfondire:
Papa Francesco, Misericordiae vultus. Bolla di Indizione del Giubileo della misericordia, LEV, Città del Vaticano 2015.
Cosmacini G., Compassione. Le opere di misericordia ieri e oggi, il Mulino, Bologna 2012.
Fasani B., Il bene del fare. Le opere di misericordia per un mondo indifferente, Lindau, Torino 2012.
Grün A., Perché il mondo sia trasformato. Le sette opere di misericordia, Queriniana, Brescia 2015.
Kasper W., Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013.
Manicardi L., La fatica della carità. Le opere di misericordia, Qiqajon-Comunità di Bose: Magnano (BI) 2010.
Sandrin L., Aiutare gli altri. La psicologia del buon samaritano, Paoline, Milano 2013.
Sandrin L., Psicologia del malato, Comprendere la sofferenza, accompagnare la speranza, EDB, Bologna 2015.
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