In un precedente articolo si è fatto riferimento al Documento[1] di consenso tra diverse Associazioni e Società Mediche Italiane che hanno accettato di introdurre le Cure Palliative nei loro specifici campi d’azione indicandone le condizioni di applicazione e superando così l’idea che le Cure Palliative siano destinate solo ai malati con patologia oncologica. Una recente ricerca effettuata presso l’Hospice “Padre L. Tezza” di Capriate S. G. (BG) conferma questa prassi, dando evidenza di una certa, ancorché ridotta, percentuale di malati non oncologici destinatari di Cure Palliative in fase terminale. Infatti, nell’anno della ricerca circa il 14% dei ricoverati non presentava patologia oncologica, senza per questo venire meno alle condizioni di appropriatezza del ricovero.
Per capire le dimensioni del problema e la necessità di estendere le Cure Palliative a patologie croniche non oncologiche si deve fare riferimento a dati che “dimostrano che la maggior parte dei malati più gravi e con maggiore mortalità sono proprio quelli con un’insufficienza cronica d’organo la quale costituisce un importante determinante di mortalità non modificabile dal ricovero in reparti di Terapia Intensiva”. Infatti, si assiste spesso ad una forma di accanimento terapeutico – o di fatica ad accettare la terminalità – che comporta il ricorso a continui ricoveri in ospedale senza un reale effetto sulla prognosi. È necessario perciò invertire la rotta (domicilio – Ospedale) ed introdurre l’Hospice quale possibile destinazione per quei casi di cui si intuisce che ogni ulteriore atto medico invasivo possa essere inappropriato e non proporzionato, oltreché economicamente costoso: “in sintesi, si pone il problema di equilibrare i nuovi poteri di intervento messi a disposizione dalla biotecnologia e dalla farmacologia sia con la qualità di vita residua che si può ancora garantire a questi malati sia con la riduzione relativa di risorse disponibili e la correlata necessità di una loro razionalizzazione”.
Dal punto di vista del pensiero e della filosofia propria delle Cure Palliative, la loro applicazione alle patologie non oncologiche è molto indicata in quanto, come per il malato oncologico al termine della sua vita, l’obiettivo della cura è la centralità della persona umana malata, da assistere con dignità quando non vi sono più approcci attivi contro la malattia. È altresì in linea con il pensiero e la filosofia delle Cure Palliative l’attenzione data al nucleo familiare, spesso provato e devastato da malattie croniche e progressivamente invalidanti e ugualmente bisognoso di un sostegno e di una partecipazione attiva alle decisioni di fine vita da cui, invece, spesso è escluso durante i frequenti ricoveri ospedalieri precedenti la morte. Infine, le Cure Palliative in ambito non oncologico offrono una nuova via, umana e dignitosa, che tiene conto di due rischi equidistanti, quello dell’accanimento da una parte, e quello dall’abbandono terapeutico dall’altra.
Le patologie non oncologiche presentano caratteristiche cliniche ed assistenziali che non rendono sempre facile ed immediato l’invio alle Cure Palliative (difficoltà a individuare una corretta prognosi, speranza di ripristino di un buon compenso da parte dei familiari e dei curanti, tendenza degli operatori di cure palliative a privilegiare la presa in carico dei malati oncologici) Inoltre la cura delle malattie croniche evolutive pone una serie di questioni etiche con cui chi si occupa di Cure palliative deve confrontarsi. Vale qui la pena farvi riferimento, anche per comprendere le difficoltà in cui possono imbattersi i curanti.
Benché nessuno strumento prognostico – preso singolarmente – è universalmente riconosciuto in grado di predire la durata della sopravvivenza dei pazienti oncologici terminali, esistono tuttavia modelli capaci di darne una indicazione accurata. Simili strumenti non sono disponibili per le forme non oncologiche e la determinazione della durata della sopravvivenza e del tempo appropriato per l’inizio delle Cure Palliative e l’invio a strutture residenziali quali l’Hospice è basato sull’esperienza del curante (Clinician Predictions of Survival, ossia la previsione clinica di sopravvivenza). Va da sé, che l’incertezza nella determinazione del momento in cui sospendere o ridurre le cure attive da’vigore all’insopprimibile desiderio dei familiari di guarire il proprio caro.
La terminalità nei pazienti affetti da malattie croniche degenerative si presenta con un andamento lento, inframmezzato da acutizzazioni della malattia (o di malattie secondarie) e da riprese (attualmente si stima che la fase terminale di queste patologie sia di 6 – 12 mesi). Colui che è affetto da una forma non oncologica presenta una capacità di performance generalmente inferiore al malato oncologico senza il rapido crollo che questi presenta nella fase critica. I suoi ultimi mesi sono caratterizzati da frequenti ricoveri; dalla incapacità di svolgere funzioni abituali; da un grado di dipendenza sempre maggiore. Per questa ragione, il ricovero in Hospice è spesso di durata maggiore rispetto al malato oncologico con inevitabili ripercussioni a livello emotivo.
Le riacutizzazioni della malattia di base in fase di terminalità impongono interventi terapeutici mirati alla riduzione dell’impatto e a ripristinare la normale funzione fisiologica. È il caso, per esempio, dell’uso dell’antibioticoterapia in corso di infezioni secondarie. Da un punto di vista convenzionale, le Cure Palliative si dimostrano ritrose verso provvedimenti terapeutici attivi e specifici quali antibiotici, trasfusioni, farmaci che agiscono più sulle cause che sui sintomi della malattia. È un tema controverso e dibattuto che può trovare una giustificazione nell’obiettivo di migliorare la qualità di vita e di rendere meno penosi sintomi altrimenti insopportabili. In questi casi, infatti, non si ha di mira la sconfitta della malattia ma il benessere del paziente.
Alcune delle patologie non oncologiche prevedono l’utilizzo di ausili atti a mantenere o a ripristinare le attività fisiologiche vitali. Questo è particolarmente vero nelle forme cardiologiche che utilizzano dispositivi impiantabili (pace maker o defibrillatore). Nella fase di terminalità della malattia, è più che mai attuale il dibattito sul loro mantenimento o sulla loro disattivazione, in considerazione delle scadute condizioni cliniche del malato e del suo legittimo desiderio di non protrarre oltre il disagio e la sofferenza cui – talvolta – contribuiscono gli stessi dispositivi impiantabili, come nel caso del defibrillatore. È un tema di natura etica con cui chi opera nelle Cure Palliative deve fare i conti.
Le Cure Palliative sono una proposta di qualità nel corso di malattie croniche ad andamento progressivamente degenerativo. Assicurano una risposta proporzionata al bisogno di cura e di sollievo sperimentato dai pazienti e dai loro cari, esausti spesso da lunghi periodi di ricovero, di ricadute e di illusorie riprese. Esse, infine, si offrono come “una medicina centrata sul malato e sulla famiglia che, attraverso un approccio palliativo, valorizzi il suo bisogno di autodeterminazione nell’interesse della sua qualità di vita e della sua dignità”.
[1] SIAARTI, “Grandi insufficienze d’organo end stage: cure intensive o cure palliative? Documento condiviso per una pianificazione delle scelte di cura”, 2013. Il presente articolo ne riporta alcune affermazioni in carattere corsivo.
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