In Camillianum, Rivista dell’Istituto internazionale di Teologia Pastorale Sanitaria, Anno XVI, III quadrimestre, n. 48/2016
In occasione del Giubileo della Misericordia è stato particolarmente interessante cercare di far conoscere come questo sentimento fosse ben conosciuto dai popoli dell’antichità pagana e come anch’essi concepissero sentimenti di pietà e misericordia, distinguendo severamente, tuttavia, gli eccessi nell’applicare l’una o l’altra. Ne abbiamo testimonianza nei Poemi Omerici, che sono alla base della nostra civiltà; non mancano esempi nell’applicazione del diritto con l’utilizzo dell’Aequitas, equità che ebbe successo anche nelle più tarde compilazioni giuridiche romane e medievali (nonché nel diritto canonico). Nel mondo romano più della misericordia, era la Clementia ad avere grande importanza: i romani riuscivano perfettamente a distinguere – sia nella quotidianità che nelle questioni giuridiche – il sentimento misericordioso dall’applicazione delle clemenza. Ciò era dovuto anche al fatto che il termine Pietas, a Roma, sottolineava tanto l’amore verso l’umanità, quanto la morigeratezza e la devozione verso gli dei e verso lo Stato. Il venir meno al rispetto dei patti in ambito internazionale, ad esempio, trasformava la clemenza romana in una reazione che non conosceva pietà, fino alla resa totale e incondizionata del nemico, di cui, però, si rispettavano le divinità! Seneca scrive che la Clemenza deve essere proprio dell’Imperatore in quanto Spirito Vitale, Mens Imperii, spirito ordinatore della comunità umana; con la Clemenza, l’Imperatore si conforma alle leggi di natura, al Diritto Naturale, per Seneca, perfetto, in confronto all’imperfezione del Diritto Positivo. Da ricordare, infine, una prova “archeologica” dell’importanza della Clementia nella Tebaide, dell’autore latino Stazio, il quale chiama avra clementia l’altare ateniese, laddove per la tradizione latina era ara misericodiae.
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