La messa di p. Rebuschini durava dai 40 ai 50 minuti. Che lo ascoltava aveva l’impressione di assistere ad un’azione “sacra” nell’accezione migliore del termine. L’abbiamo già visto in chi assisteva alla sua messa a Barbignano. A quelle già riportate, aggiungiamo la testimonianza di Maddalena Marchetti: «La sua messa era cosa più unica che rara, mi dava l’impressione che fosse in estasi», e di Adelaide Michetti: «Quando celebrava la santa messa e arrivava all’elevazione si fermava come estatico e la sorella, oppure il chierichetto inserviente avvertito dalla sorella doveva tiragli il camice, per fargli capire che non si fermasse più».
La stessa descrizione ci viene dai testimoni di Cremona. Fr. Doppio attesta. «Celebrava la santa messa con un raccoglimento e con un fervore che trasparivano da tutto il suo comportamento; faceva genuflessioni profondissime». P.Vanti è più dettagliato: «Si preparava, cominciando dalla sera, con la lettura del messale e di commenti liturgici (Gueranger, Schuster, Caronti, ecc.). La mattina, prima di uscire, preparava personalmente ogni cosa in ordine, e, arrivato all’altare, pareva che si trasformasse sia per il calore della recitazione, sia per l’atteggiamento del viso e di tutta la persona. Questo appariva in maniera più evidente dalla consacrazione alla comunione. Mi diceva egli stesso che il punto più commovente della messa era, per lui, la recita del “Pater Noster”, avendo l’impressione di dire, con le labbra di Gesù, la preghiera la Padre. Questo veniva notato anche dai fedeli presenti, in particolare dai medici che frequentavano la casa. Ricordo che il primario-chirurgo prof. Dalla Rosa, assistendo qualche volta alla messa di p. Enrico, diceva che era un po’ lunga, ma era la messa di un santo. Tra i libri preferiti da lui i n questo periodo, ho notato il “De Sacrificio missae”, del Card. Bona, il trattato sul sacrificio della messa del p. De La Taille che io stesso gli procurai con sua immensa gioia dietro sua garbatissima richiesta. Uscendo la mattina per le solite commissioni di economo, trovava modo di assistere all’ultima messa della città, solitamente in duomo. Anche in casa ascoltava tutte le messe possibili. Era sua l’assistenza alla messa dei sacerdoti degenti bisognosi d’aiuto, e la celebrazione della messa nelle camere dei degenti, specialmente i più difficile, e degli ammalati a domicilio».
La messa a domicilio, o nelle stanzi di ammalati degenti in clinica, era uno degli strumenti maggiori del suo apostolato, a cominciare dal 1905. È noto che il diritto canonico vigente interdiceva in via assoluta la messa a domicilio, un’interdizione che è caduta solo con la revisione del codice del 1983. I camilliani potevano celebrarla per un privilegio specialissimo concesso loro da S. Pio X il 26 luglio 1905. P.Rebuschini fu uno dei primi ad avvalersene, fino alla morte. La sera, prima di iniziare il suo giro ai malati, chiedeva al superiore se poteva disporre della messa all’indomani e così l’offriva lui stesso, all’uno o all’altro. A domicilio aveva dei riferimenti dissi, dei malati cronici, che assisteva spiritualmente. Era ogni volta per lui un momento d’intensa animazione spirituale, nella quale coinvolgeva i presenti. Nella cronaca spessissime volte annota il numero delle comunioni, con spontanei apprezzamenti per la fede dei partecipanti. Spesso è testimone di scene che lo edificavano, come in casa di Antonio Seminari, che, ormai morente, chiama attorno al letto tutti i suoi figli e ha per ciascuno commoventi parole di congedo, poi segue attentamente il rito liturgico e si comunica (1.2.1921); o in casa del prof. Sosso, «ridotto a pelle e ossa, (che) può mancare da un momento all’altro. È ammirabile in questo caro infermo la pazienza e uniformità alla volontà di Dio» (6.5.1925), o in camera della «vecchia piissima portinaia della casa n.6 di via Favagrossa» (15.1.1932), con sei comunioni; o di Maria Marchetti in via Mancini 33, «erano accolte in quella camera circa quaranta persone, di cui 30 si comunicarono» (37.5.1932); o di Virginia Casali, «anima veramente eletta, che presto volerà in seno a Dio» (8.02.1924).
Si rinnova ogni volta per lui il mistero di Dio vicino agli uomini e partecipe delle loro sofferenze, di Dio che illumina di spirituali certezze il mistero della morte. La sua messa lasciava nei presenti, che potevano seguirla quasi a ridosso dell’altare e non a distanza e nell’anonimato di una grande chiesa, una forte impressione. L’ing. Alessandro Scaglia, al processo apostolico (1982), ricorda nitidamente quando p. Enrico celebrò in casa sua, nella stanza della mamma morente, e aveva allora 20 anni (1923). Per questo conserva di lui un ricordo di ammirazione e anche di gratitudine. Depone: «L’ho visto celebrare la messa in casa mia e qualche volta nella cappella della clinica. Ne ho sempre riportato l’impressione di un uomo assorto in Dio e di un uomo assorto in Dio e di un livello assai superiore al normale quanto a spiritualità. Il modo con cui celebrava la santa messa manifestava una partecipazione singolare. Nella mia lunga consuetudine con sacerdoti e religiosi, persone che mi abbiano fatto la sua impressione non ne ho più trovate.»
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