Missione Salute N.2/2022
La testimonianza di p. Alberto Redaelli,
fondatore dell’Hospice San Camillo di Quito,
luogo dove il malato terminale viene assistito.
In questo tempo difficile e oscuro della pandemia, ho potuto accompagnare diverse famiglie che hanno sofferto sulla propria pelle la prossimità della morte. Molti sono coloro che pensavano alla morte come a una realtà che non li riguardava, finché il Covid-19 non li ha costretti ad affrontare la perdita di un amico o di un congiunto.
In questi frangenti, colpiti dal dolore, tutti abbiamo dovuto riconoscere il “valore di una presenza”, nel momento del distacco. Sentirsi amati è il desiderio che ridà senso alla vita, l’unica esperienza umana che resta quanto tutto sfuma, l’unica verità che calma il nostro dolore. Viviamo in un mondo individualista e profondamente secolarizzato, tuttavia, il bisogno di amare e di sentirsi amati emerge dal profondo del nostro cuore. Si ama per ritrovare pace o per riscoprire la nostalgia dei tempi migliori.
Presenza e accompagnamento
I giorni che stiamo vivendo ci riservano tempi di dolore. Accompagnare quanti soffrono può allora trasformarsi in consolazione nell’aiutarli a ricercare quel fondo di verità che nasce come una necessità per dare un po’ di senso all’imprevedibile.
Si riscopre allora il tesoro dell’amici e dell’affetto che si andava cercando.
L’Hospice San Camilo di Quito (Ecuador) si è impegnato per mantenere vivo il vincolo affettivo tra pazienti e familiari. Quando questi non possono vivere da vicino la presenza, si affidano a noi. È frequente sentire familiari e amici dei malati che ci ringraziano, per aver consentito loro di condividere l’ultima tappa della vita di un congiunto: “Lei era vino a mio padre, mi parli dei suoi ultimi momenti…”. Spesso uno sconosciuto diventa improvvisamente un familiare: “La morte che ci sorprende totalmente soli è la più difficile che si possa immaginare! Almeno papà ha avuto una persona sensibile accanto”. Oggi ci impegniamo a tutelare l’umanità del malato, con il coinvolgimento dei volontari.
Il valore dell’accompagnamento spirituale nell’ultima fase della vita, con al responsabilità di sostenere il malato nella sofferenza, riscatta la speranza cristiana. Il volontario è chiamato ad elevare al massimo grado alcune qualità squisitamente umane, in particolare il rispetto dell’altro, la disponibilità, la compassione, la capacità di stabilire un rapporto da persona a persona, lealtà, fedeltà, gentilezza del tratto, flessibilità, discrezione, cortesia, buona disposizione alla comunicazione e alla collaborazione. Accostando chi si avvicina alla era della vita, tutti, operatori sanitari e volontari, siamo chiamati a ridare dignità a colore che soffrono e speranza ai loro familiari, offrendo un accompagnamento sereno e solidale.
Il mistero della morte
Davanti alla morte non è facile trovare parole per consolare, però anche nella pandemia abbiamo bisogno di vivere più vicini gli uni gli altri.
Agli operatori pastorale e a quanti sono accanto al malato nell’ultima fase – con la responsabilità di sostenerlo nella sofferenza e indicare la speranza cristiana – è riservato uno spazio privilegiato.
La situazione che la pandemia ha enfatizzato sottolinea l’attenzione che non solo la Chiesa, ma tutta la società. Debbono avere nei confronti delle persone a prescindere dall’età, dalla condizione di salute o familiare, sociale, economica. Il momento drammatico di una malattia prolungata e irreversibile richiede un’attenzione particolare alla persona.
La fragilità deve essere accompagnata dalla consapevolezza della dignità della vita, di una vita ricevuta in dono, che si apre alla speranza e che non culmina nella morte fisica. Questo deve avvenire ponendo attenzione concreta alle persone nella situazione in cui si trovano a vivere. C’è un significativo passo nella lettera Samaritanus bonus, pubblicata nel 2020 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, che si ricorda come “la risposta cristiana al mistero della morte e della sofferenza non sia una spiegazione, ma una Presenza”.
Vicinanza al malato
Prestare “cure palliative” significa prendersi cura in generale della persona perché non soffra e sia accompagnata: anche la vicinanza al malato è un intervento palliativo. Potrebbe essere eliminato del tutto il dolore fisico, ma se la persona si trova sola in un letto d’ospedale senza alcuno accanto, non si può parlare di cera cura palliativa.
Certamente oggi la pandemia complica le cose, non permette una vicinanza alle persone e proprio per questo va attribuito grande apprezzamento al personale sanitario impegnato a fare da tramite tra le famiglie e i malati, in modo che questi ultimi non si sentano abbandonati.
L’esigenza dilimitare il contagio richiede misure rigorose di sicurezza saniria, alle quali non si possono concedere deroghe. Ma la vicinanza fisica di una persona cara al letto di un malato, specie se più fragile, più grave, o se morente, non deve essere considerata un’eccezione ai protocolli di cura e sicurezza.
La persona la centro
L’Hospice San Camilo desidera sottolineare questo aspetto: la presa in carico di un malato non può limitarsi alla cura del suo organismo, ma deve coinvolgere la persona intera, in tutti i suoi bisogni ed esigenze. Va cioè messa in atto una sanità che concretamente abbia al centro il malato che vi si affida.
Quindi nessuna deroga alle misure di sicurezza, ma un invito a uno sforzo organizzativo per prendersi cura in toto e – come ha dichiarato il Comitato nazionale per la bioetica – “perseverare nella ricerca di soluzione innovative per garantire la sicurezza senza perdere la dimensione relazionale, di vicinanza e prossimità.”
Alberto Redaelli
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