IMPARARE A MORIRE PER VIVERE – Lettera del Superiore Generale

 ‘IMPARARE A MORIRE PER VIVERE’

 «All’invocazione ‘mite e festoso ti manifesti Cristo Gesù il suo volto’, Camillo si illumina per un istante, e unisce l’ultimo sorriso all’ultimo respiro. Lui quel volto lo conosce da tanto tempo. Sono le 21 e 30 del 14 luglio 1614» (Dalla lettura del Transito di san Camillo).

 Luglio, nella tradizione camilliana, è il mese in cui si fa memoria del transito di san Camillo al Cielo. Quando una persona muore, dopo il suo trapasso, per chi sopravvive, si apre il testamento per la trasmissione e la condivisione della sua eredità e soprattutto inizia la faticosa e sofferta rilettura sentimentale, valoriale, relazionale dell’esistenza globale della persona deceduta.

La regola-madre trasmessa in eredità a noi da san Camillo è la proposta di un valore sovratemporale che apre poi, per noi, la responsabilità di un radicale dovere e di una precisa forma di vita. I termini con i quali questa preziosa eredità viene presentata sono chiari ed esigenti, forse troppo esigenti tanto da dubitare della loro realistica proponibilità e fattibilità.

«Se, ispirato dal Signore Dio, uno vorrà esercitare le opere di misericordia corporali e spirituali secondo il nostro Istituto, sappia che deve essere morto al mondo, cioè ai parenti, amici, cose e a se stesso, per vivere solamente per Gesù Crocifisso sotto il suo soavissimo giogo della perpetua povertà, castità e obbedienza e servizio dei poveri infermi anche appestati, nelle necessità corporali e spirituali, di giorno e di notte, secondo ciò che gli sarà comandato. Farà questo per vero amore di Dio, per penitenza dei propri peccati, ricordandosi di quanto la Verità, Gesù Cristo, dice: «Ciò che avete fatto a uno di questi minimi miei fratelli, l’avete fatto a me», e altrove: «Ero infermo e mi avete visitato: venite con me, o benedetti, possedete il Regno preparato per voi prima della fondazione del mondo». […] Perciò chiunque vorrà entrare nel nostro Ordine pensi che deve essere morto a se stesso, se ha ricevuto un così grande dono di grazie dallo Spirito Santo da non curarsi né di morte né di vita, né di infermità, né di salute: ma come morto in tutto al mondo, si dia completamente a compiere la volontà di Dio sotto la perfetta obbedienza ai suoi superiori, rinunciando totalmente alla propria volontà, e ritenga un gran guadagno morire per il Crocifisso Cristo Gesù, Signore nostro, il quale dice: «nessuno ha un amore più grande di colui che dona la propria vita per i suoi amici». […]» (Dalla nostra Formula di Vita – 1599).

È interessante notare questa triplice insistenza di Camillo sull’essere ‘morto al mondo’, ‘morto a se stesso’, ‘morto in tutto al mondo’. Per lui esiste un ‘morire per vivere’ come anche un ‘vivere per morire’; ossia un morire e un vivere, intesi e vissuti proprio come un riservarsi in senso assolutamente esclusivo, senza riduzionismi di sorta, tutto per la cosa sacra e santa per eccellenza: il ‘servizio dei poveri infermi, anche appestati’, fatto ‘per vero amor di Dio’.

Nella Vita Manoscritta (251) leggiamo: “Tutte le sue contemplationi, estasi, ratti, e visioni, consistevano in trattenersi quasi le notti intere a mirar fisso sopra qualche corpo morto, o moriente o altro povero infermo destrutto. Et in questi corpi così estenuati e macilenti considerava esso l’estrema miseria della vita humana… Et in simili spettacoli d’horrore imparava esso a vivere per morire, e quelli furono sempre i suoi libri e le sue schuole dove imparò a disprezzare il mondo, et amare i suoi prossimi”.

Camillo traccia per noi, in modo semplice ma rigoroso la direzione precisa di riflessione sull’esperienza della croce e della misericordia, fonti primarie e permanenti della sua vita: il servizio agli infermi era per lui il luogo in cui “imparava a vivere per morire”.

Ma questa radicale esperienza ascetica, di permanente conversione umana e spirituale, non sembra essere ancora sufficiente: la sua vita personale-interiore-mistica e tutto il suo impegno di relazione e di servizio si sostanziano di un bene fatto bene, in cui il bene primario non è il contenuto esterno-apparente-visibile-oggettivato-quantificabile delle azioni; ma è primariamente racchiuso da una ‘forma di vita cristiana’ radicale, coerente e monitorata costantemente nelle sue motivazioni profonde.

Quando Camillo, infatti, giungerà ad enucleare l’unica e fondamentale ragione dell’esercitare le opere di misericordia, nella morte a se stessi e nel vivere soltanto per il crocifisso, con una formula sobria ma estremamente chiara, affermerà: “il che farà per VERO amore di Dio”.

Si va qui a toccare il nucleo più intimo – e spesso ignorato – dell’esperienza di fede e quindi della santità, capace di rendere autentica la carità e le opere di misericordia. Camillo ci invita ad andare al di là dell’apparenza, a guardare noi stessi (e non solo quello che facciamo) di fronte alla croce, e lasciarsi mettere nella verità dalla sua parola.

L’enfasi posta sull’aggettivo vero, sembra rimandare alla possibilità di un amore di Dio ‘non vero, di una misericordia per il malato di facciata. Camillo conosceva la distinzione tra il ‘bene reale’ e il ‘bene apparente’, tra ciò che è vissuto come un valore, un bene-per-se-stesso e ciò che, in qualche modo, è solamente qualcosa importante-per-me. Come negli altri aspetti della vita di fede, e forse anche di più, nelle opere di misericordia è in gioco la scommessa sulla possibilità che abbiamo di fare un dono sincero di noi stessi agli altri. L’esame di coscienza dei santi si è sempre sostanziato di questa radicale auto-critica: più progredivano nell’età e nella sapienza della vita, approssimandosi alla santità di Dio (cfr. Lv 11,44) tanto più si scoprivano inadeguati e bisognosi di continui correttivi. Camillo nel suo transito, si confesserà come un “mostro pieno di difetti e senza spirito”. Se la risposta – non certo quella verbale, quanto quella esistenziale, che si concretizza negli stili di vita, nelle piccole, ordinarie, spesso lineari scelte di cui sono fatte le nostre giornate – non è ‘per Gesù crocefisso’, inevitabilmente sarà sempre una risposta riconducibile al ‘per me stesso’.

Il crocifisso è l’elemento unificante per Camillo, l’esperienza che gli permetterà serenamente ma caparbiamente di ‘portare lo sguardo al centro’. Il crocifisso è al tempo stesso il servitore che dona la vita e colui che è servito in coloro con i quali si è specialmente identificato; è il “luogo” dove si impara a morire per vivere e a vivere per morire; è il “segno” più eccellente dell’accettazione della misericordia incondizionata, da uomini bisognosi che, in questo modo, possono entrare nella verità di se stessi.

Davanti alla croce, Camillo si scopre anzitutto come un uomo bisognoso di misericordia. Solo a partire dall’assoluta e incomprensibile gratuità dell’amore crocifisso, egli impara ad avere misericordia di se stesso, dei suoi limiti, di quell’umanità che attendeva di essere conosciuta e rispettata e che ora è chiamata ad essere trasformata e trasfigurata ad immagine del crocifisso.

Auguro a tutti i Confratelli camilliani e a tutti i membri della Famiglia Carismatica Camilliana di sentirsi raggiunti e abbracciati dalle ultime e benedicenti parole del nostro Padre Fondatore: «Per quanto mi è concesso da Dio, come padre vostro, nel nome della Santissima Trinità e della Beatissima Vergine, dono a voi, come agli assenti e ai futuri mille benedizioni».

p.Pedro Tramontin MI

Superiore Generale