Di seguito la riflessione di p. Gianfranco Lunardon in occasione dei 130 anni di fondazione dell’istituto Figlie di San Camillo.
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Oggi, 2 febbraio 2022, giornata dedicata in modo del tutto speciale, nella chiesa, alla preghiera per tutti i consacrati e le consacrate, in questa piccola camera – cubiculum – della nostra casa generalizia della ‘Maddalena’, che conserva tutta l’intensità mistica del nostro fondatore san Camillo de Lellis, celebriamo la memoria di due eventi fondamentali che saldano in modo forte i nostri due istituti religiosi:
- 2 febbraio 1575, la conversione di san Camillo, avvenuta nella ‘Valle dell’Inferno’, tra Manfredonia e S. Giovanni Rotondo;
- 2 febbraio 1892 (130 anni fa!), in questa stessa ‘cameretta’, tre giovani ragazze – Giuditta Vannini, Vittorina Panetta ed Emanuela Eliseo hanno ricevuto dalle mani del superiore generale dei camilliani, p. Giovanni Mattis, e sotto lo sguardo commosso di p. Luigi Tezza, lo scapolare con la croce rossa camilliana e l’affiliazione all’Ordine dei Ministri degli Infermi. È l’evento germinativo della storia, della spiritualità e del ministero a favore dei poveri e degli ammalati delle religiose Figlie di San Camillo.
2 febbraio 1575: “Camillo viene chiamato da Dio al suo vero conoscimento”. “Inginocchiato sopra un sasso cominciò con insolito dolore, e lagrime che piovevano da gl’occhi suoi à piangere amaramente la vita passata. Dicendo…: ah misero et infelice me che gran cecità è stata la mia a non conoscere prima il mio Signore?” (Vms 46).
Ogni cammino di santità, che necessità di un reale e drammatico incontro con Dio, non ammette dubbi: è necessario “portare il nostro sguardo al centro”. È come se ci venisse donato una nuova visione, una nuova prospettiva, un modo nuovo di guardare a noi stessi, mediante il quale – sorprendentemente – scopriamo anche la presenza di Dio. È l’inizio di un nuovo modo di definire sé stessi, a partire dall’esperienza di un amore incondizionato; un nuovo modo di definirci, dal quale non possiamo omettere Dio, pena la negazione della nostra stessa identità.
Questo nuovo modo di vedere sé stessi e Dio, è una disponibilità ad accettare noi stessi per quello che si è e a far esistere Dio per come si vuole rivelare. Un modo che inevitabilmente esige una purificazione della mente, del cuore, del desiderio, della volontà. Tra l’illusione e l’autentica esperienza di Dio, c’è dunque un passaggio obbligato: la conversione.
Camillo “porta lo sguardo al centro” di sé e lì fa la scoperta più sconcertante della sua vita: vede “le macchie e bruttezze… del suo miserabil stato” e lì vicino un Dio che lo ama comunque. Forse Camillo ha sempre ricordato quel giorno (2 febbraio 1575) come il “giorno della sua conversione”, non certo perché da allora visse di rendita; piuttosto forse perché quella fu la prima volta che guardò in modo nuovo Dio, iniziò a scoprirne il vero volto, che è “sempre-oltre” i nostri schemi, le nostre idee, le nostre immagini, i nostri ideali. Dal momento in cui permise al volto di Dio di risplendere di luce propria, ne rimase invincibilmente attratto.
Camillo scopre che Dio è Dio e non un uomo, che non può essere racchiuso nelle strettoie delle nostre prospettive, che è novità continua e continuamente ci sorprende…, che i suoi pensieri non sono i nostri pensieri…
Il vero conoscimento “di Dio” da parte di Camillo è quello di una misericordia al di là di ogni speranza. L’esperienza spirituale di Camillo appare profondamente segnata da una nuova presa di coscienza (alla luce di Dio!) dei propri limiti e peccati. Da quel giorno Camillo scoprì un volto nuovo – il volto vero di Dio – per il quale valeva la pena dare un taglio definitivo al passato e iniziare una vita radicalmente nuova.
Dalla vicenda di Camillo possiamo capire che spesso la conversione non è un fatto eccezionale o prodigioso, ma piuttosto un processo di purificazione, un cambiamento radicale del proprio orizzonte di vita: è il passaggio dall’illusione all’incontro, dai miei desideri ai Suoi, dalla falsa all’autentica esperienza spirituale.
È chiaro che dal punto di vista causale v’è anzitutto il dono che Dio fa del suo amore, senza il quale non si dà autentica conversione. Ma questo dono richiede una risposta responsabile e globale, un investimento totale dell’uomo, e comporta una purificazione integrale.
In questa nuova ottica, la persona è liberata da sé stessa, o se si vuole, è affrancata dal condizionamento imposto dell’inevitabile prezzo da pagare. Ora, l’orizzonte è cambiato e cambiato è il criterio che muove il desiderio e dirige la decisione e l’azione: non più il prezzo da pagare, bensì la persona amata da raggiungere, costi quel che costi.
Il nostro cammino verso Dio inizia con l’ascoltare noi stessi, così come siamo, e imparare a conoscerci e ad amarci per quello che siamo, compreso quegli aspetti di limite che in qualche modo dobbiamo imparare a rispettare; solo così ci metteremo in cammino per presentarci e abbandonarci interamente a Dio, affinché ci trasformi e faccia di noi quello che vuole.
2 febbraio 1892: anche padre Tezza e madre Vannini “portano lo sguardo al centro” e fanno convergere il meglio della loro esistenza su un grande progetto di santità e di carità.
Tale progetto in cui si riconoscere il primato assoluto di Dio come fonte ispirativa dell’opera permanente di carità, è ben sintetizzato in uno scritto di p. Tezza: “Tutto in Dio, per Dio, con Dio. Disposti per la carità a fare sempre più doloroso sacrificio, massime verso i poveri infermi; tale generosità sia di ogni istante e nei dettagli più piccoli della vita” (Scritti, 106, 27).
Emerge come l’immensità di Dio venga calata in forma radicale:
- in ogni forma di ‘sacrificio’, ossia di rinuncia;
- in ogni forma di condivisione solidale con i poveri e i malati, percepiti come i destinatari privilegiati dell’amore di Dio;
- in ogni forma di semplice, quotidiana e perpetua disponibilità;
- in ogni forma di bene che deve essere curato nei minimi dettagli, preceduto/accompagnato/seguito da una cura ‘maniacale’ per amore della persona, nel cui profilo viene percepito il volto stesso di Dio.
Per p. Tezza e madre Giuseppina risulta intuitiva la percezione del volto di Dio che è ‘carità’, ossia, un amore che ad imitazione di Gesù ‘si spoglia’ o meglio ‘si svuota’. Spogliarsi è ancora poco: spogliarsi è l’esterno, svuotarsi è l’interno. L’amore cede tutto lo spazio all’altro, accoglie l’altro, non occupa posto, è pura accoglienza. Quindi, la prima manifestazione dell’amore è il vuoto, come la prima manifestazione dell’egoismo è riempire tutto.
L’amore è discreto, lascia il posto all’altro, si svuota e prende la ‘forma’ del proprio prossimo. Chi ama diventa come colui che è amato, si identifica con lui. Ecco che Dio, la sua gloria, la fa consistere nell’identificarsi con noi; quindi, non nel distinguersi. Mentre l’egoismo vuol distinguersi dall’altro, affermarsi sull’altro, la gloria di Dio prima di tutto si svuota, poi si identifica con l’altro e, alla fine, si fa ‘obbediente’, che in greco, vuol dire “ascoltare stando sotto, stando sottomesso”.
L’amore è sottomissione, non è dominio, è servizio, è andare incontro al desiderio dell’altro e non solo per un momento, ma fino alla morte, cioè tutta la vita a servizio.
Conosciamo la generosità del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, egli si fece povero, affinché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà.
Chiamati ad una vita intensamente evangelica, scegliamo di seguire il Salvatore che nacque nella povertà, visse nella privazione di tutte le cose, e morì nudo in croce.
Ecco, capire che questa è la gloria, è il grande mistero della nostra vita consacrata. Quando Gesù lava i piedi, noi diciamo sempre che Gesù si è degnato di lavare i piedi ai suoi discepoli: Gesù non si è degnato di lavare i piedi, ha manifestato la sua gloria lavando i piedi, la sua dignità, non si è abbassato, non si è umiliato a lavare i piedi, si è esaltato, ha mostrato la vera esaltazione, quella di servire, che è la gloria di Dio. Allora il vero problema è il baco che abbiamo in testa: il concetto di gloria, dal quale ci guarisce solo la contemplazione del Cristo.
Alla radice di ogni vera spiritualità si scopre che vi è una scelta e una rinuncia; c’è un guadagno ma anche lo svuotamento; la vita consacrata è “sottrazione”, è avere meno come condizione per crescere.
Solo coloro che non hanno nulla da proteggere o da difendere godono di una grande libertà di spirito e possono accogliere Cristo nella loro vita. Coloro che hanno tutto o molto, non hanno bisogno degli altri. La semplicità di vita e la povertà dei consacrati rappresentano un modo di essere che fa sì che ciò che essi possiedono non possieda loro.
La semplicità ha sempre richiesto sobrietà e persino austerità nel rapporto con noi stessi; solidarietà nei nostri rapporti con gli altri, fiducia nel nostro rapporto con Dio e una saggia libertà e cura nel rapporto con le altre persone. Così si coprono tutte le dimensioni di una consacrazione che serve per stimolare un processo continuo di conversione.
Bene omnia fecit. Non cose straordinarie, non miracoli. Facciamo bene quello che dobbiamo fare. Nella proporzione in cui viviamo la nostra partecipazione alla vita stessa di Cristo godiamo di vita spirituale evangelica.
“Vedi che non ci sia nulla che lavori nella tua mente e nel tuo cuore, se non Dio solo”
(Anonimo inglese XVI sec.).
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