Pubblicazione del testo (trascritto da registrazione) che la Dott.ssa Cristina Simonelli, appartenente alla commissione teologica, ha presentato il 20 ottobre scorso, a conclusione dell’iter diocesano di Germana a Verona.
Ti porgo
il calice
della mia
vita […]
Colmato di Te
diventi
offerta.
Germana Sommaruga invia questa preghiera a un collaboratore, Sebastiano Genco, delle Comunità Familiari, nell’ultima fase della sua vita. Questa preghiera bene ne raccoglie l’ispirazione, il percorso la dinamica interiore.
Le date che racchiudono la sua vita 25 maggio 1914 – 4 ottobre 1995 non sono solo una doverosa precisazione anagrafica, misurano l’estensione che abbraccia il cosiddetto secolo breve denso di trasformazioni civili e, certo, anche ecclesiali. Germana ne è partecipe e testimone, in una misura alta di santità tanto più autentica quanto più vissuta nel riserbo, nella trama quotidiana di una presenza discreta. Di se stessa dirà quando sceglie di passare gli anni dell’anzianità estrema e fragile in casa di riposo, di accingersi a farlo “come una donna qualunque”.
Per una felice coincidenza – tra l’altro – l’inchiesta diocesana che oggi qua si conclude e che la riguarda, si conclude proprio all’indomani della beatificazione di Papa Paolo VI, che la volle consultore presso la sezione Istituti Secolari della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostoliche: incarico che ricopri dal 22 maggio del 1978, negli ultimi mesi di questo pontificato, fino al 1991. E chi è dunque questa donna che corrisponde e collabora con vescovi e cardinali e – ultimamente dunque di fatto anche attraverso loro – con i pontefici, che parla abitualmente a Radio Vaticana e contemporaneamente vive una secolarità esigente fino al nascondimento?
Ne ripercorro sinteticamente alcuni tratti.
La sua infanzia e la sua adolescenza sono segnate profondamente dal dolore e anche dalla malattia. Per motivi di tipo politico – c’è la cosiddetta grande guerra, anche se lei è appena nata, ma il clima è quello – e attraversano poi i tempi del totalitarismo – e calcoliamo che la sua famiglia, nei molteplici apporti, ha anche una radice ebraica e sicuramente comunque ha anche delle posizioni certo non favorevoli al regime fascista – quindi per tutte queste motivazioni di tipo politico, ma anche per motivazioni di tipo personale e familiare perché la sua mamma che è affetta da tisi, cosa frequente all’epoca, muore quando lei è proprio piccolissima, pochi mesi dopo la sua nascita e anche il fratello, uno dei fratelli, molto amato, di fatto aveva contratto la malattia e tutta la vita di Germana sarà all’insegna anche di questo dolore e di questa sofferenza, che diventa per lei, in un percorso che a molti di voi certo è già noto e familiare, una relazione speciale con la tradizione e la memoria di San Camillo de Lellis. Dunque l’esperienza profonda personale, familiare, diciamo anche comunitaria del dolore e della sofferenza diventa per lei in termini quasi di infanzia e di adolescenza, elemento di compassione, elemento di tradizione camilliana appunto, di dedizione alla stessa vita fragile alla stessa sofferenza.
In un percorso che la vede passare, in diversi luoghi e in diversi contesti, in epoca molto precoce, nel 1936, inizia in collaborazione con chiamiamo così famigliarmente la “Famiglia camilliana”, con i Ministri degli Infermi, in collaborazione con loro – e con alcuni di loro specialmente – inizia un percorso diverso da quelli che tradizionalmente si trovava davanti, il percorso che si chiama inizialmente della “Famiglietta” e che diventa poi un Istituto Secolare.
Se calcoliamo però che la Provvida Mater Ecclesia che dà il via ufficialmente all’esperienza degli Istituti Secolari è del 1947, vediamo come anche in questo Germana, e tutti quelli e quelle che l’hanno accompagnata, hanno respirato e in qualche modo anticipato i segni dei tempi. Segni dei tempi e transizione, di spiritualità profonda che passa anche nel travaglio del 900 e che assume i temi del Concilio Vaticano II l’abbiamo anche nel passaggio appunto che la riguarda profondamente e che riguarda uno dei tratti caratteristici della sua spiritualità, nel passaggio da una spiritualità legata alla sofferenza, ma quindi anche ai temi, tradizionali all’epoca, dell’espiazione, penitenziali e tutto questo senso, senza mai rinnegarli, la vede transitare a un passaggio in cui questo diventa abbandono, consegna, profonda solidarietà, chènosi espressa anche in termini profondamente teologici e cristologici.
Lo possiamo vedere in alcune cose che lei ha scritto nella maturità e che ne rendono ragione, così come di questa ragione rende conto il nome un po’ lungo effettivamente, ma che spiega questo cammino, il nome della “Famiglietta” che è diventata nel tempo un Istituto Secolare di ispirazione camilliana: Missionarie degl’Infermi “Cristo Speranza”. Dove in Missionarie degli Infermi resta tutta la prima impostazione e senza abbandonarla si apre a partire da quella condivisione, da quella compassione a un cammino che è un cammino gioioso, di risignificazione e di profonda speranza.
Così lei stessa scrive, appunto nell’età della tarda maturità, commentando le Costituzioni di questa realtà:
«[…] la carità delle nostre sorelle ci aiuterà a vivere nella speranza, ad accettare umilmente la nostra fragilità, a cogliere in noi e attorno a noi ogni valore».
Quella voce termina con l’espressione: “Eccomi!” così simile anche alla preghiera che abbiamo ascoltato e presente anche nel suo testamento spirituale.
E alla voce abbandono dice: «Siamo convinte che non possiamo consacrarci se lo Spirito non ci consacra, perciò vogliamo abbandonarci allo Spirito in modo attivo dandogli la collaborazione della nostra buona volontà: lo Spirito svilupperà in noi i doni del battesimo e della confermazione, ci formerà allo spirito delle beatitudini, ci aiuterà a vivere il vangelo […] Gli chiediamo di renderci umili, semplici, docili alle sue esigenze tra le mani del Padre per la vita e per la morte. Ed è questo amore che ci spinge a dire come gesto di suprema fiducia: “Eccomi!”.»
Questo diventa allora un’ispirazione di profonda secolarità non per il rifiuto dei temi religiosi ma anzi per l’assunzione radicale della profondità dell’immersione dello Spirito nella trama della storia. E così lei scrive:
«Calate nelle realtà umane più concrete, gomito a gomito con gli uomini del nostro tempo, noi sappiamo – anche – quale sia la prepotenza del peccato nel mondo […] Perciò, fatte con Cristo voce di ogni creatura, – si sentono trasversalmente gli echi liturgici ed eucaristici nelle sue parole – presentiamo all’amore misericordioso di Dio ogni realtà umana compreso il peccato; ci associamo alla redenzione di Cristo in uno sforzo di speranza […] chiediamo perdono al Padre e a tutti gli uomini nel perdono che l’Uomo-Cristo-Gesù c’intercede e ci concede, in una nostra continua conversione.»
E molto intense, le riassumo, sono anche le pagine che proprio in questo orizzonte di solidarietà nella sofferenza, ma di profonda secolarità dedica al lavoro dicendo che il lavoro non è per noi soltanto un mezzo di sostentamento, e certo vivaddio lo è, non è soltanto un mezzo di sostentamento ma è proprio questo modo lei dice che «[…] ci rende presenza di Cristo, speranza degli uomini, che, nulla disdegnando o rinnegando dei nostri problemi, dà loro soluzione.»
In questo modo appunto fino alla morte intrattiene dialoghi, collaborazioni con ogni genere di persona da alti personaggi ecclesiastici, ricordiamo tra tutti anche per la profonda amicizia che avranno con lei il Cardinal Pironio e il Cardinal Larraona, alle compagne di percorso della casa di riposo, e trasversalmente alle sorelle, alle altre che partecipano a questa – la chiamo ancora col nome dell’inizio – “Famiglietta” che assume una dimensione via via sempre più universale passando da un percorso che è interiore, a un percorso che diventa comunitario, da un percorso locale a partire dalla Diocesi di Cremona sempre più largamente fino a raggiungere i confini del mondo e delle forme di partecipazione anche di famiglie, laicale e più vasta.
Tutto questo si configura con una fede esigente, una fede che nei dialoghi più personali conosce e manifesta la prova dell’interrogazione radicale, dell’abbandono, della notte oscura potremmo dire, con toni mistici che diventa nella sua vita radicalità esigentissima, ma che sa essere guida dolce e comprensiva per tutti coloro quelli e quelle che a lei si riferiscono.
E dunque concludendo, un respiro così universale di una persona nata a Cagliari, seppure il suo nome – Sommaruga – fa capire questa radice lombarda della famiglia paterna, e morta in casa di riposo a Capriate san Gervasio, provincia e diocesi di Bergamo, transitata anche per Cremona che cosa ha a che fare con Verona?
Dalla biografia, da questo largo respiro, non appare in maniera immediata, ma Germana e le sue Missionarie degli Infermi “Cristo Speranza” sono profondamente presenti a Verona. Profondamente ma discretamente com’è loro abitudine e anche loro proposito.
Basta chiedere con la stessa discrezione: molti e molte l’hanno conosciuta e hanno apprezzato il rigore, la profonda alacrità sua e della sua – uso ancora questo nome iniziale – Famiglietta. Io ad esempio non l’ho conosciuta personalmente ma la sua esperienza mi è stata presentata tramite don Serio De Guidi, che pure ricordo con gratitudine e affetto.
Dunque della presenza di Germana, delle sue Missionarie, dell’Associazione “Amici di Germana” tutto questo è ancora un segno di questa Chiesa e delle potenzialità di questa Chiesa oggi rappresentata qui dalla presidenza del Vescovo e da questa celebrazione nel contesto di San Giovanni in Fonte; di questa Chiesa poliedrica nelle sue espressioni e ospitale di forme diverse.
E come ogni segno ha dimensione anche profetica mentre conforta e conferma questa esperienza ecclesiale ci esorta a perseguire con decisione il cammino sulla via della carità in tutte le sue forme, senza perdere il sorriso e la fiducia nel futuro che è abito laico quanto teologale virtù.
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