Negli ultimi decenni questo termine è entrato nel vocabolario collettivo, tanto da non necessitare alcuna traduzione, per indicare una vera e propria forma patologica diffusa in molte categorie lavorative. Tra queste, gli operatori socio-sanitari sono i più colpiti per essere esposti allo stress di un rapporto diretto con un’utenza disagiata. Essi sembrano essere più predisposti a “bruciarsi”, “esaurirsi” (burn out, appunto), con un rapido decadimento delle risorse psicofisiche e un altrettanto rapido peggioramento delle prestazioni professionali.
Secondo Maslach, nel processo di burn out sono evidenziabili tre dimensioni: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e realizzazione personale. La necessità di soddisfare le avvertite richieste dell’utenza sfocia in un depauperamento delle proprie risorse emotive e affettive, fino a sentirsi emotivamente inariditi. Con l’utenza allora, s’instaura un rapporto distaccato e freddo, talvolta cinico, che mira a creare una distanza relazionale sufficiente ad assicurare una supposta auto protezione: all’utenza si riserva solo una prestazione professionale impersonale. A sua volta, questa non è sufficiente ad assicurare la realizzazione professionale suscitando negli operatori la percezione d’inadeguatezza e inefficienza, con caduta dell’autostima e sensazione di insuccesso.
La sindrome ha manifestazioni diverse per le aree colpite e per i segni che la evidenziano. A livello fisico – somatico sono comuni i disturbi gastro intestinali in assenza di reale danno fisiologico; l’astenia, la cefalea o i dolori diffusi; le malattie della pelle quali dermatiti o allergie; le alterazioni nella alimentazione e nel riposo. A livello psicologico si manifestano rabbia e percezione negativa del reale; isolamento e alterazione dell’umore; caduta della idealità, freddezza fino alla insensibilità; riduzione dell’autostima e senso di inabilità. Infine, a livello comportamentale, sono frequenti l’incapacità a controllare le proprie reazioni con frequenti scontri o scatti d’ira; l’assenteismo dal lavoro o la partecipazione abulica; fino alla dipendenza da sostanze stimolanti (alcool, tabacco, farmaci) sentite come una soluzione a fronte del proprio esaurimento.
Nell’instaurarsi del burn out sono chiamati in causa elementi soggettivi e oggettivi: si può dire che, accanto alla predisposizione o inclinazione naturale, sono necessarie anche situazioni strutturali ed organizzative che ne fanno da detonatore e senza le quali il soggetto potrebbe sopravvivere allo stress lavorativo. Tra i fattori soggettivi, le competenze individuali, il proprio credo, le esperienze di vita, l’età e la personalità; le relazioni sociali e l’abilità di intessere rapporti con l’utenza e i colleghi; gli hobby e la capacità di diversificare gli interessi. Molti sono i fattori oggettivi che possono scatenare il burn out. Alcuni hanno a che fare l’organizzazione (riforme, risorse, turni, chiarezza dei regolamenti, flussi di comunicazione interna, frequenza delle riunioni, percorso di carriera); altri con l’utenza e le sue pretese, spesso oggetto di ventilata ritorsione penale; altri ancora, sono legati alle condizioni di lavoro, il carico ed il ritmo, spesso competitive; alla mancanza di potere decisionale ma doversi sottomettere a protocolli prestabiliti; al mancato riconoscimento economico; all’assenza di equità tra gli operatori ed al conflitto di valori. Infine, a predisporre al burn out concorre il tipo di utenza con cui si opera, specialmente quei casi in cui dedizione e impegno risultano impotenti di fronte al bisogno e la distanza tra risultati ed aspettative è ampia (pazienti terminali, specie giovani o bambini; vittime di incesto o abbandono; psicotici; handicap grave e anziani).
Un’indagine svolta tra gli operatori dell’Hospice Padre Luigi Tezza ha permesso di mettere in evidenza il loro livello di burn out considerato secondo le tre dimensioni principali: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e realizzazione personale. L’elaborazione dei dati, ha focalizzato alcuni processi di prevenzione a partire dal vissuto concreto individuale e di gruppo. Infatti, mentre le dimensioni di esaurimento emotivo e di depersonalizzazione si sono rivelate basse in circa 2/3 dei componenti il gruppo, la realizzazione personale è risultata alta solo nel 17% degli operatori con il rimanente 83% attestato tra una percezione della propria realizzazione media o bassa. Considerando questo un fattore predittivo di rischio di burn out, si è ritenuto opportuno prevenirlo con adeguate strategie rivolte sia al singolo operatore che alla organizzazione del lavoro.
A partire dai risultati dell’indagine sono state suggerite le seguenti attenzioni: chiarire gli obiettivi e ridimensionarli secondo le risorse disponibili; condividere con i colleghi i compiti emotivamente più pesanti e stabilire un limite alla disponibilità verso il paziente e la sua famiglia. A livello organizzativo, si è proposto: offrire la possibilità di formazione/supervisione continua; gratificare gli operatori per il buon operato; permettere la rotazione del personale; migliorare la comunicazione d’équipe; condividere il modello centrato sulla persona piuttosto che sulla malattia. Infine, a livello relazionale per migliorare il clima interpersonale si sono auspicati momenti conviviali extralavorativi.
La strategia adottata presso l’Hospice Padre Luigi Tezza ricalca alcune delle indicazioni ampiamente conosciute per la prevenzione del burn out: niente di nuovo, ma la consapevolezza che un minuto di prevenzione è meglio di un’ora di cura!
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