Riflessione di P.Paolo Guarise, Vicario Generale dell’Ordine, in occasione della Giornata Mondiale del Malato 2014
Penso ci saremo chiesti perché la giornata del malato viene celebrata ogni anno l’11 di febbraio. Viene celebrata l’11 febbraio perché in questo giorno celebriamo la memoria liturgica della Madonna di Lourdes, ricorrenza che da 150 anni ci richiama la vicinanza di Maria a coloro che vivono in una situazione di sofferenza o di malattia. Sofferenza, vale a dire la perdita di quell’armonia psico-fisica di cui ci ha dotato il Creatore al momento della nostra nascita; malattia, in quanto incrinatura del prezioso dono della salute.
“Venite alla fonte a bere e a lavarvi”, questo è quanto la Vergine Maria ha detto – tra le altre cose – alla giovane Bernardette Soubirous, sbigottita davanti alla presenza della Bella Signora apparsa in quella fredda grotta presso il fiume Gave. Vediamo che Maria ha non solo rallegrato la giovane donna con la sua apparizione, rivelandole la propria identità – “Io sono l’Immacolata Concezione”-, ma ha anche provveduto a dare sollievo fisico e spirituale con il dono miracoloso della sorgente d’acqua, necessaria per togliere la sete (benessere fisico) e per lavare dalle impurità (benessere spirituale). La presenza e la collaborazione di Maria nel corso della sofferenza e della malattia sono un strumento per farci giungere a Cristo che è la via, la verità e la vita. Maria fa da tramite, come alle nozze di Cana, e sollecita la sensibilità di Cristo nei nostri confronti.
Qual è il ruolo che Cristo svolge nei nostri confronti nel tempo della malattia? Ce lo dice Papa Francesco nel messaggio che ha scritto per i malati in occasione della giornata odierna: “Il Figlio dell’uomo non ha tolto dall’esperienza umana la malattia e la sofferenza, ma, assumendole in sé, le ha trasformate e ridimensionate. Ridimensionate perché non hanno più l’ultima parola, che invece è la vita nuova in pienezza; trasformate, perché in unione a Cristo da negative possono diventare positive” (Papa Francesco, Messaggio, § 2).
Riflettiamo su questa importante affermazione del Sommo Pontefice che possiamo sintetizzare così: se viviamo il nostro tempo di malattia con Cristo, la malattia si presenterà in maniera ridotta, non avrà più quella veemenza che è propria delle forze del male, perché essa non ha più l’ultima parola; l’ultima parola spetta a Cristo, alla pienezza di vita di cui Egli ci fa partecipi. Per fare nostre queste affermazioni del Papa dobbiamo vedere la malattia aiutati dalle virtù cristiane della fede e della carità. La prima virtù ci sprona a credere e ad affidarci a Lui; la seconda ci insegna a vivere mediante l’amore e la solidarietà.
Questo ci porta a prendere in considerazione un settore importante della vita del cristiano, la vicinanza e l’accompagnamento ai sofferenti. Ci riferiamo a tutti coloro che o per legami familiari, o per professione, o per spontanea donazione di sé – i volontari – vengono in aiuto ai malati e al mondo della sofferenza con la loro opera di servizio e di solidarietà. “San Giovanni – ci dice ancora il Papa nel suo messaggio – ci ricorda che non possiamo amare Dio se non amiamo i fratelli” (Messaggio, § 5). Dovrebbe essere parte del DNA di ogni cristiano lo spendersi per i bisogni dei propri fratelli e sorelle che soffrono, così come ogni madre lo fa con i propri figli. Nel museo camilliano di Roma, Casa S. Maria Maddalena, nel cubicolo di S. Camillo si trova una scritta in latino: Cum matris corde, con il cuore di una madre. E’ la sintesi di una frase più lunga che S. Camillo soleva ripetere ai suoi religiosi: dobbiamo servire i malati con quell’amore che una madre ha verso il suo unico figlio infermo.
Purtroppo la società odierna, a causa di interessi materiali o problemi socio-economici, si è molto allontanata da questo amore materno, necessario per prendersi carico dei suoi malati. Spesso i luoghi di cura dove vengono assistiti i malati languiscono non solo per la mancanza di mezzi e attrezzature, ma più spesso per la mancanza di umanizzazione e di amore.
S. Camillo, patrono dei malati e degli operatori sanitari, esorta tutti coloro che lavorano accanto ai malati ad avere “più cuore nelle mani”! Un servizio e un’attività professionale che non adotti un comportamento dettato dal cuore e dalla tenerezza, difficilmente fa breccia nelle aspettative del malato.
Una società tanto più si mostrerà evoluta, quanto più eccellerà nel prendersi cura dei malati, dei bambini e degli anziani, che sono gli essere più fragili e vulnerabili della società. Gli anziani sono una categoria in forte aumento che merita il concentrarsi dei nostri sforzi. In un mondo che ricerca così avidamente il ben-essere fisico e il piacere, non dobbiamo trascurare l’affetto per coloro che pur non rappresentando più una forza lavoro, tuttavia hanno ancora molto da offrire alla società attraverso lo scrigno della loro esperienza/saggezza e mediante servizi che ancora sanno dare nell’ambito sociale e civile sotto forma di lavoro volontario.
La figura del buon samaritano – icona evangelica di primo piano nel campo dell’attenzione ai sofferenti – ci insegna a lenire con olio e vino le ferite dell’uomo sanguinante nel mezzo della strada e a tirar fuori dal portafoglio qualcosa di nostro per la sopperire alle cure e all’ospitalità. Mettiamo dunque a disposizione le nostre personali risorse – nel modo e misura in cui la nostra vita ci consente – ma soprattutto mettiamo a disposizione il nostro cuore. Un noto scrittore contemporaneo ha definito l’attività senza tempo di S. Camillo a favore dei sofferenti con le seguenti parole: “un cuore per il malato”. Indubbiamente un programma per ogni cristiano.
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