Da “Esercizi spirituali alla scuola del beato Enrico Rebuschini” di p.Domenico Casera
Si sa quale rilievo abbia, nella spiritualità camilliana, la parabola del buon samaritano. Il Cicatelli si rifà ad essa per introdurci nella prima biografia, quella manoscritta, del Santo. Il pover uomo aggredito e brutalizzato sulla strada che da Gerusalemme conduce a Gerico, prefigura per lui tutti «gli poveri infermi così ne gli ospedali come nelle proprie case abbandonati», e nel «pietoso samaritano» egli vede prefigurato Camillo che «vedendo detti poveri, mosso a compassione di loro, se gl’accostò e medicò pigliando sopra di sé il peso d’ajoutarli e di servirgli».
L’accentuazione, dal Cicatelli e da ogni corretta lettura della parabola, è messa sul duplice significato di «prossimo». Prossimo è colui che si trova in difficoltà, come il ferito di Gerico o come gli affetti da patologie devastanti che confluivano a Santo Spirito per essere accolti e curati; prossimo è colui che è vicino a chi, a qualunque titolo si trova in sofferenza. Nel primo significato è sostantivo maschile con valore collettivo, e significa tutti i nostri simili rispetto a ciascuno di noi. Ogni uomo rispetto a me, in quanto partecipe della mia stessa natura e, nella prospettiva evangelica, fratello in Gesù Cristo, è il mio prossimo. Notiamo, en passant, che è stato il vangelo a dare valore di sostantivo a quello che, nel linguaggio corrente, e aggettivo superlativo di «prope» – vicino – e significa vicinanza strettissima, quella che, estesa anche agli estranei e prioritariamente ai bisognosi, unisce tra loro i seguaci di Cristo. È questo il significato insito nel comandamento: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Nel secondo significato conserva il suo valore di aggettivo, e unito al verbo essere, indica una vicinanza molto stretta, un’attitudine di sensibilità e di attenzione all’altro che, attraverso il quotidiano esercizio («ero infermo e mi avete visitato…» Mt 25,25 ss.) e il supporto dottrinale («Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» Lc 7,12), costituisce la vera natura del cristiano, la tessera del suo riconoscimento.
P. Rebuschini ha singolarmente onorato questo secondo significato della parola «prossimo», che è quello privilegiato da Gesù nella spiegazione che egli dà della parabola, forzando un po’ la logica del discorso: il dottore della legge gli aveva chiesto: «Chi è il mio prossimo?». Ed egli, dopo aver raccontato la parabola, chiede al dottore: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». La risposta, pienamente approvata da Gesù, è stata: «Colui che ha avuto compassione di lui» (Lc 10,29-37). «Prossimo» è colui che ha avuto compassione dell’anonimo incontrato a caso. Ciascuno di noi deve far proprio questo aggettivo qualificante, che nel testo evangelico diventa sostantivo. Ciascuno di noi deve potersi definire così: «Io sono il prossimo», cioè colui che è, non vicino, ma vicinissimo alle persone che soffrono.
Nella parabola, farsi «prossimo» ha comportato l’incontrare un uomo in una situazione di limite e di sofferenza, provare compassione, scendere dalla cavalcatura, farsi vicino, (altra traduzione: «curvarsi su di lui»), fasciare le ferite, caricarlo sul suo giumento, portarlo ad una locanda, prendersi cura di lui, pagare per lui, tornare indietro per pagare eventuali spese supplementari. Sono i verbi del soccorso volenteroso, dell’interessamento, del dono di sé e del proprio tempo, della disponibilità più ampia a compiere quegli atti dovuti che la situazione esige. Per David Maria Turoldo sono i dieci verbi dell’amore, un decalogo mirato ad indicare nella concretezza dell’azione quale rilevante spazio occupi nella religione cristiana la solidarietà».
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