di Rev. Dr. William Eronimoose MI, Ph.D
Traduzione in italiano, dall’originale in inglese
Introduzione
Il 14 luglio 2020 è stata pubblicata della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF), la ‘lettera’ Samaritanus bonus (SB) sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita: è stata pubblicata nella data in cui si celebra la memoria liturgica di San Camillo de Lellis, fondatore dell’Ordine dei Ministri degli Infermi (Camilliani), patrono degli ammalati, degli operatori sanitari e degli ospedali. Questa lettera espone chiaramente la posizione etica della Chiesa circa il ‘fine vita’ a distanza di molti anni dalla pubblicazione della dichiarazione Jura et Bona pubblicata nel 1980 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.
La Lettera porta implicitamente alla luce e alla vita la figura di San Camillo de Lellis che nel 500’, con la sua nuova scuola di carità, fu un rivoluzionario nella cura dei moribondi, trattati senza dignità e caduti nella cultura dello scarto di quei tempi. In questo momento di mancanza di un’etica della cura con un riferimento particolare alla cura pastorale dei morenti, SB esalta implicitamente l’etica della cura propria di san Camillo de Lellis. Sulle orme di questo santo, SB invita il personale sanitario, le famiglie di chi si trova in una fase critica, i ministri impegnati nella vita pastorale, i volontari, i cristiani e le persone di ‘buona volontà’ a promuovere l’etica della cura per questi malati, i quali dovrebbero essere rispettati e assistiti sullo stile di Gesù Buon Samaritano che offre il meglio di sé per aiutare l’uomo ferito che incontra e si prende cura del suo corpo e delle sue sofferenze con “l’olio della consolazione e il vino di speranza”.
Gli interventi della Chiesa alla luce della lettera Samaritanus bonus
L’intervento della Chiesa si propone di rendere concreto lo stile del Buon Samaritano, tradotto in una disponibilità ad accompagnare la persona sofferente e nell’offrire questa assistenza per rispettare e promuovere la dignità intrinseca dei malati, il loro diritto alla salute e la loro intrinseca dignità umana. Di fronte ai progressi della tecnologia medica, che senza alcun discernimento morale, pretendono di definire il significato e il valore della vita umana, SB auspica che nella ricerca scientifica e tecnologica ci sia l’orientamento al servizio per il bene integrale della vita e per la dignità di ogni essere umano, con una riscoperta del vincolo di fiducia tra medico e paziente, del rispetto dei confini etici e legali che tutelano il malato, per una riaffermazione del valore della vita umana, del significato della sofferenza e di un rinnovato significato del quel lasso di tempo che precede la morte, e una riconsiderazione della intrinseca dignità umana propria di ogni persona.
L’intervento preciso di SB è: 1) riaffermare il messaggio del Vangelo e la sua espressione nelle fondamentali affermazioni dottrinali del Magistero, richiamando la missione di quanti entrano in contatto con i malati nelle fasi critiche e terminali; 2) fornire orientamenti pastorali precisi e concreti per affrontare a livello locale queste complesse situazioni e gestirle in modo da favorire l’incontro personale del malato e di tutto il suo universo affettivo e relazionale con l’amore misericordioso di Dio.
Sintesi della lettera Samaritanus bonus
Samaritanus bonus può essere sinteticamente definita come “etica della cura alla fine della vita”. L’importanza di questa lettera risiede in una posizione etica che si coniuga con la cura pastorale sulle orme di Gesù, per dare senso e speranza alla fragile esistenza umana al termine della vita, con il sostegno del personale sanitario e della famiglia. I pastori adeguatamente formati e qualificati devono aiutare tutte queste categorie di persone coinvolte, attraverso il loro accompagnamento spirituale e pastorale per discernere le scelte migliori e così evitare qualsiasi atto umano, non etico, come l’eutanasia e il suicidio assistito.
In questo senso, SB è un ottimo strumento per i pastori per aiutare il personale sanitario e i credenti a comprendere le loro domande e le loro incertezze sull’assistenza medica e i loro obblighi spirituali e pastorali nei confronti dei malati nelle fasi critiche e terminali della vita e per aiutare a diventare una “comunità di guarigione”, al fine di attualizzare concretamente il desiderio di Gesù che ‘tutti siano una sola carne’.
Paradigmi, principi ed interpretazione della lettera Samaritanus bonus
SB invita a rispettare due paradigmi fondamentali: 1) il valore dell’essere umano è la norma morale di riferimento, (il morente è norma di moralità); 2) l’apertura alla metafisica e alla trascendenza come orizzonte di senso (la vita fisica si apre alla la vita trascendentale in Dio).
Alla luce di questi due paradigmi, l’etica della cura si estende su quattro principi da rispettare: 1) il criterio di giudizio alla fine della vita è il bene stesso della persona concreta che sta morendo e quando non è in condizione di poter decidere per se stessa, interviene la famiglia che decide ma sempre per il bene del singolo malato; 2) fare tutto il possibile a beneficio del malato assistito dalla famiglia in solidarietà e sussidiarietà; 3) fare il solo possibile, necessario alla persona; 4 ) fare il meglio possibile, attraverso una continuità di cura.
Il rispetto di questi due paradigmi e dei quattro principi sul fine vita è fondamentale per evitare alcune scelte o per obiettare ad esse coscienziosamente: 1) qualsiasi anticipo della morte attraverso l’eutanasia e il suicidio assistito; 2) qualsiasi posticipazione della morte attraverso l’accanimento terapeutica (trattamenti aggressivi); 3) qualsiasi forma di abbandono terapeutico, cioè il rifiuto di offrire trattamenti proporzionati che portino beneficio alla persona come l’idratazione e la nutrizione necessarie affinché il morente eviti la fame e la sete.
Questa etica della cura è aperta al valore trascendentale della vita umana rivelata in Gesù, il Figlio di Dio incarnato in forma umana, il Buon Samaritano, la cui stessa vita e morte sulla Croce hanno aperto la strada per un rinnovato significato redentivo e partecipativo alla sofferenza umana e la cui risurrezione ha aperto la strada per la grande speranza della vita umana che ha il suo destino finale solo in Dio: vita/destino eterno a cui giungere attraverso una cura dignitosa dovuta alla persona umana morente.
Fondamenti per un’etica di fine vita
I fondamenti dell’etica sul fine vita secondo SB sono spiegati molto bene nei primi tre capitoli.
Il primo fondamento è la cura del prossimo: la vulnerabilità umana è un mistero che è codificato nella nostra natura e che costituisce la base per un’etica della cura. Si esprime nella sollecitudine, dedizione, partecipazione condivisa e responsabilità verso tutti coloro che ci vengono affidati per l’assistenza materiale e spirituale nel momento del bisogno. È espresso nel principio di giustizia, ricodificato da Gesù nella regola aurea “Fa’ agli altri quello che vorresti che gli altri facessero a te” (Mt 7,12) e riecheggiato in ‘primum non nocere’ dall’etica medica tradizionale.
La cura per la vita deve essere quindi la prima responsabilità che guida il medico attraverso una forma di ‘arte terapeutica’, che implica rapporti solidi con il paziente, con gli operatori sanitari, con i parenti e con i membri delle comunità. Questa responsabilità esiste non solo quando il ripristino della salute è un risultato realistico, ma anche quando una cura è improbabile o impossibile, non solo quando ci si preoccupa della funzionalità del corpo ma anche del benessere psicologico e spirituale del paziente.
L’etica della cura si fonda e prende continua ispirazione da Gesù Christus Medicus che come buon Samaritano non solo si ferma e si approssima all’uomo che trova mezzo morto sul suo cammino, ma si assume anche la responsabilità della persona più fragile, investendo su di lei, non solo le risorse che al momento ha a disposizione ma anche quelle risorse che ancora non ha: “al mio ritorno ti rifonderò di quello che hai speso in più”. Questo Christus Medicus si identifica in ogni ammalato come Christus patiens (cfr. Mt 25,40), realizzando una forma di solidarietà universale. Questa solidarietà richiama e stimola il personale sanitario a diventare come Gesù Christus Medicus nel prendersi cura del paziente che è immagine del Christus patiens; a farsi carico di ‘ogni malato’ con lo scopo universale di ‘rivelare la cura’ per la vita di tutti e quindi rivelare l’amore originale e incondizionato di Dio, fonte del significato di tutta la vita e di ogni vita.
L’etica della cura in medicina deve accettare il mistero della morte come parte integrante della condizione umana e questo mistero deve essere trasmesso ai malati sia con grande umanità (la vita fisica/biologica non è qualcosa da preservare a tutti i costi), sia con una apertura tensionale verso un orizzonte soprannaturale (la vita corporea/fisica/biologica è aperta a Dio). Una comunicazione responsabile con il malato terminale sulla sua morte dovrebbe chiarire il concetto preciso che le cure saranno fornite fino alla fine: “curare (‘to cure’) se possibile, prendersi cura (‘to care’) sempre”. La cura pastorale di tutti – famiglia, medici, infermieri e cappellani – può aiutare il malato a perseverare nella sua ‘passione’, attraverso la grazia santificante, e a morire nella carità e nell’amore di Dio, senza affrettare la morte attraverso l’eutanasia o il suicidio assistito.
Il secondo fondamento è l’esperienza viva del Cristo sofferente e l’annuncio della speranza: la sofferenza di Cristo è divenuta fonte della grande speranza (‘spe salvi facti sumus’) per tutti coloro che soffrono e che attingono alla ‘sofferenza salvifica di Cristo’: la sua esperienza di molteplici forme di dolore e angoscia risuona con e nei malati e nelle loro famiglie, durante i lunghi giorni di infermità che precedono la fine della vita.
L’esperienza di Cristo risuona con e nei malati che sono spesso percepiti come un ‘peso’, un carico eccessivo anche per la società; le loro domande non sono comprese; spesso subiscono forme di abbandono affettivo e la perdita di connessione/relazione con le altre persone; non vengono ascoltati; sono trascurati; si sentono soli e tormentati dalla prospettiva del dolore fisico. In questa situazione, volgere lo sguardo a Cristo è rivolgersi a Colui che ha sperimentato tutte le sofferenze del mondo: sofferenza fisica, sofferenza psicologica, sofferenza morale, sofferenza spirituale. Di fronte a tutte queste forme di ‘passione’, Gesù è diventato il segno della speranza: una speranza sincera, capace di sostenere l’uomo nel momento della prova e nella sfida rappresentata dalla morte.
La Madre, Maria, e i suoi discepoli offrono e sostengono la speranza di Gesù sulla Croce attraverso il loro ‘rimanere/stare’ sotto la Croce. ‘Rimanendo’, sostando sotto la Croce appaiono impotenti e rassegnati, eppure forniscono l’intimità affettiva che permette al Dio-fatto-uomo di vivere ore che sembrano, altrimenti, prive di significato. Questo rivela che la fine della vita è un momento che si sostanzia di relazioni, un momento in cui la solitudine e l’abbandono devono essere sconfitti. Con Cristo al centro, la luce della fede ci permette di testimoniare una presenza trinitaria dove Cristo confida (si abbandona) nel Padre, attraverso lo Spirito Santo che sostiene sua Madre e i suoi discepoli. In questo modo ‘stanno’ ai piedi della Croce, partecipano, con la loro umana dedizione, al mistero della Redenzione. Contemplare l’esperienza viva della sofferenza di Cristo è annunciare agli uomini e alle donne di oggi la speranza che dona un senso al tempo della malattia e della morte. Da questa speranza nasce l’amore – la cura – che supera la tentazione della disperazione. La risposta cristiana alla sfida e all’enigma della sofferenza che si condensa alla fine della vita non è vista come una soluzione al problema ma come l’offerta della certezza di una presenza, una vicinanza, una prossimità, rivissuta da Cristo durante la sua esistenza terrena e che giunge a noi, oggi, come impegno da vivere e condividere con coloro che sono alla fine della vita.
Il terzo fondamento è la vita umana percepita e vissuta come dono sacro e inviolabile: la vita umana è un bene ‘indisponibile’ sia a noi stessi che ad ogni altra persona. La santità o dignità della vita presuppone l’indisponibilità della vita stessa che esige in modi intrinseco, il suo essere inviolabile. Qualunque sia la loro condizione fisica o psicologica, le persone umane conservano sempre la loro dignità originaria in quanto create da Dio e come tali, chiamate ad esistere ad immagine e gloria di Dio. La loro dignità si fonda in questa vocazione universale. Il fondamento ultimo della dignità umana risiede nel fatto che Dio stesso si è fatto uomo, in Cristo Gesù, per salvarci e promette la salvezza di ‘tutto’ l’uomo, chiamandoci alla comunione con Lui. Questa è una dignità partecipativa e quindi anche i più deboli non perdono la loro dignità ed è imprescindibile che la Chiesa li accompagni con misericordia nel loro cammino di sofferenza e si impegni nel preservare la loro vita teologale e li accompagni alla salvezza.
Tutti sono chiamati ad implementare e a formare e a nutrire il “cuore che vede” che è essenziale nel programma di ‘cura’ messo in atto dal Buon Samaritano. Un cuore che vede converte lo sguardo del cuore, vede dove serve amore e agisce di conseguenza, individuando nella debolezza del prossimo la chiamata di Dio ad apprezzare la vita umana intesa e vissuta e protetta come il bene comune primario della società. Il cuore che vede ogni singola vita come un dono sacro ed inviolabile, creata da Dio, ha una vocazione trascendente ad un rapporto unico con Colui che dona la vita. Questo cuore vede la vita umana come il bene supremo ed è sempre il bene che la società è chiamata a riconoscere, intuendone con gioia la ragione teologale più profonda.
Questa dignità inalienabile è già riconoscibile dalla retta ed umana ragione/intelligenza, e alla luce della fede, viene confermata e ricompresa. Il valore infrangibile della vita è un principio fondamentale della legge morale naturale e un fondamento essenziale dell’ordinamento giuridico. Pertanto, porre fine arbitrariamente alla vita di un malato significa rinnegare violentemente il valore stesso della libertà, della vita, del rapporto umano, del significato della sua esistenza e della sua crescita nella vita divina – vita di grazia –, oltre che affermare il desiderio prometeico di prendere il posto di Dio nel decidere autonomamente il momento stesso della morte.
Ostacoli culturali che oscurano questi fondamenti
La cura del prossimo ha il suo naturale punto di partenza nell’esperienza di vita di Gesù sulla Croce che proclama la speranza per tutti coloro che sono ‘sulla loro croce personale’, alla fine della vita, in modo che la loro stessa esistenza fragile possa essere protetta dalle pratiche aberranti non-etiche tipiche della nostra post-modernità: Dio, il Creatore, offre vita e dignità agli esseri umani come dono prezioso da salvaguardare e nutrire, e richiede che gli esseri umani debbano rendere conto a Lui attraverso uno stile sano e di prossimità, sia per sé stessi che per gli altri. Tuttavia ci sono molti ostacoli che oscurano o sminuiscono il nostro senso del profondo valore intrinseco di ogni vita umana.
Il primo ostacolo risiede nella nozione stessa di ‘morte dignitosa’, misurata dallo standard della ‘qualità della vita’. Questa prospettiva antropologica utilitaristica considera la vita ‘utile’ e ‘di qualità’ solo se possiede o rivela un grado di qualità accettabile, misurato dal possesso o dalla mancanza di particolari funzioni psicologiche o fisiche, o talvolta semplicemente dalla presenza o meno di disagio psicologico.
Un secondo ostacolo risiede nella comprensione mistificata e mistificante dell’attitudine alla ‘compassione’. Di fronte ad una sofferenza apparentemente ‘insopportabile’, porre fine alla vita di un malato è giustificato spesso in nome della ‘compassione’. Questa cosiddetta eutanasia “compassionevole” afferma che è meglio morire che soffrire, e che la vera compassione sta nell’impegno per aiutare un malato a morire mediante l’eutanasia o il suicidio assistito.
Un terzo fattore è rappresentato dal crescente individualismo tematizzato come ‘diritto alla solitudine’ o ‘principio di permesso-consenso’ che può essere esteso anche alla scelta se continuare o meno a vivere. Questo presunto “diritto” è alla base dell’eutanasia e del suicidio assistito da realizzare in perfetta autonomia e reciprocità, nei casi di persone che vivono una situazione di dipendenza o di inabilità.
Tutti questi tre fattori, nelle parole di papa Francesco, sembrano essere alla base della cosiddetta “cultura dello scarto”, dove le vittime sono gli esseri umani più deboli, che rischiano di essere “scartati” quando il sistema punta all’efficienza a tutti i costi. Questo fenomeno culturale, profondamente contrario alla solidarietà e alla umana reciprocità, San Giovanni Paolo II lo aveva definito espressione della “cultura della morte” che dà origine a vere e proprie “strutture di peccato” che possono portare alla realizzazione di azioni in sé sbagliate, intrinsecamente sbagliate ed anti-umane.
L’insegnamento del magistero
Alla luce di questi principi fondamentali e nel contesto della negazione di questi stessi fondamenti, scaturisce la falsa nozione di ‘morte dignitosa’, l’arbitraria comprensione della compassione ed il crescente individualismo che portano ad una condivisa cultura della morte e ad una conseguente cultura dello scarto. È proprio di fronte a queste immani sfide antropologiche che l’insegnamento del Magistero coraggiosamente espone la sua innegabile posizione per un’etica sul fine della vita. L’insegnamento della Chiesa attraverso questa SB invita i cristiani e tutte le persone di ‘buona volontà’ ad orientare le proprie scelte verso un’etica della cura, da vivere proprio quando la cura non è possibile.
I seguenti dodici punti sono una sintesi dell’insegnamento della Chiesa
- La principale posizione etica della Chiesa è un chiaro “No” all’eutanasia e al suicidio assistito: essi sono atti intrinsecamente malvagi in ogni situazione, in ogni azione, omissione o intenzione; essi sono un crimine contro la vita umana e una grave violazione della Legge di Dio. Quindi non dovrebbe esserci alcuna forma di cooperazione materiale formale, immediata, attiva o passiva o alcuna altra forma di complicità.
- Poiché l’eutanasia e il suicidio assistito sono atti umani intrinsecamente malvagi, vi è l’obbligo morale di escludere trattamenti medici aggressivi in modo da accelerare la morte o ritardarla. La rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia – esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte – come anche la rinuncia a trattamenti sproporzionati che garantiscono poche speranze di risultati positivi.
- Il ‘No’ all’eutanasia, al suicidio assistito e alle cure sproporzionate comporta l’offerta di cure di base con l’obbligo di cure ordinarie come la somministrazione del nutrimento e dei liquidi necessari al mantenimento dell’omeostasi corporea. Quando la fornitura di nutrimento e di idratazione non è più a vantaggio del paziente, la loro somministrazione deve essere sospesa.
- Per le persone in fin di vita, la continuità delle cure attraverso le cure palliative fa parte della responsabilità terapeutica. Le cure palliative sono un’autentica espressione dell’attività umana e cristiana di assistenza, simbolo tangibile del “rimanere/stare/sostare” compassionevole al fianco della persona sofferente. Gli atti relativi alle cure palliative e le leggi sulla fine della vita insieme all’assistenza medica ai morenti intesi come apertura all’eutanasia e al suicidio assistito non dovrebbero mai essere supportati. Gli interventi palliativi con la somministrazione di farmaci per accelerare la morte e la sospensione o l’interruzione dell’idratazione e della nutrizione, quando la morte non è imminente, sono equivalenti ad un’azione diretta o all’omissione che comunque mirano a provocare la morte e sono quindi atti illeciti.
- Mentre le cure palliative sono la continuazione delle cure per evitare atti non etici, il ruolo della famiglia con il supporto degli altri ‘attori’ dell’etica della cura, è centrale per l’accompagnamento del malato terminale. È essenziale che i malati assistiti non si sentano un peso, ma possano percepire l’intimità e il sostegno dei loro cari. Le strutture degli Hospice sono un esempio di vera umanità nella società, santuari dove la sofferenza è vissuta e risignificata. Per questo devono essere dotati di personale qualificato, possedere le risorse adeguate ed essere sempre aperti alle famiglie dei malati.
- Nel contesto del crescente numero di interventi finalizzati all’eutanasia prenatale, l’accompagnamento e la cura nella medicina prenatale e pediatrica sono un ‘dovere’, un must. Fin dal concepimento, i bambini affetti da malformazioni o da altre patologie sono piccoli pazienti e non devono essere lasciati senza assistenza, ma accompagnati come ogni altro malato fino alla morte naturale. Il comfort prenatale favorisce un percorso di assistenza integrata e i Centri Prenatali – Hospice forniscono un’assistenza medica competente e un accompagnamento spirituale che sono un supporto essenziale per le famiglie che accolgono la nascita di un bambino in condizioni di estrema fragilità.
- Per mitigare il dolore di un paziente, la terapia analgesica/antalgica (‘terapia del dolore’) utilizza farmaci che possono indurre la perdita di coscienza. Accettare il dolore attraverso la lente della redenzione di Gesù è un’offerta speciale a Dio. Tuttavia la Chiesa afferma la liceità morale della sedazione come parte della cura del paziente per garantire che la fine della vita giunga con la massima serenità possibile e nelle migliori condizioni personali/olistiche. Ma qualsiasi somministrazione di farmaci che causi direttamente e intenzionalmente la morte è una pratica eutanasica ed è inaccettabile. I caregivers sono obbligati ad alleviare il più possibile la sofferenza del bambino, in modo che possa giungere ad una morte naturale pacificata. Da un punto di vista pastorale, dovrebbe essere fornita la preparazione spirituale preventiva ai malati, in modo che possano approssimarsi coscientemente alla morte, compresa e vissuta come incontro con Dio.
- Una posizione importante e cruciale della Chiesa riguarda i soggetti che si trovano nello stato vegetativo persistente e/o nello stato di minima coscienza con capacità respiratoria autonoma: si ribadisce che queste persone sono esseri umani individuali con tutta la inesausta dignità. In questi stati di maggiore precarietà, la persona deve essere riconosciuta nel suo valore intrinseco ed assistita con adeguate cure, con diritto all’alimentazione e all’idratazione, intesi sempre come mezzi ordinari di sussistenza.
- Non c’è il diritto al suicidio assistito o all’eutanasia. L’unico diritto autentico è quello che tutela i malati affinché siano accompagnati e curati con genuina umanità. Non è mai moralmente lecito collaborare con leggi che inducono azioni immorali/anti-umane o implicano collusione in parole, azioni o omissioni. I cristiani, come tutte le persone di buona volontà, sono chiamati ad obiettare coscienziosamente alle leggi contrarie alla Legge di Dio. I governi devono riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza. Tale diritto riafferma che i cristiani respingono queste leggi inique non in virtù di convinzioni religiose private, ma in ragione di un diritto inalienabile ed essenziale al bene comune.
- L’accompagnamento pastorale e il sostegno dei sacramenti preparano i morenti all’incontro con Dio. L’accompagnamento pastorale insieme alle ‘risorse terapeutiche’ della preghiera e dei sacramenti, unite allo stile di cura del Buon Samaritano, con l’esercizio delle virtù umane e cristiane, è una porta verso Dio. Il ministero di ascolto e di consolazione che il sacerdote è chiamato ad offrire simboleggia la sollecitudine compassionevole di Cristo e della Chiesa e può e deve avere un ruolo decisivo. Vista la centralità del sacerdote nell’accompagnamento dei malati e della famiglia, è necessario che la sua formazione personale e ministeriale preveda una preparazione aggiornata e rigorosa in questo ambito. È importante che i sacerdoti siano formati in questo accompagnamento cristiano. Il momento sacramentale è il culmine di tutto l’impegno pastorale di cura che precede ed è la fonte di tutto ciò che segue. La Chiesa infetti definisce i sacramenti della Penitenza e dell’Unzione degli infermi come sacramenti “di guarigione” e culminano nell’Eucaristia che è il “viatico” per la vita eterna.
- L’accompagnamento pastorale deve essere esteso anche a quei malati che chiedono espressamente l’eutanasia o il suicidio assistito. Rispetto al Sacramento della Penitenza o della Riconciliazione, al confessore si deve ‘assicurare’ – per quanto sia possibile!! – della presenza della vera contrizione da parte della persona malata, necessaria per la validità dell’assoluzione. Quando l’assoluzione è ritardata o differita, tale situazione si deve interpretare come un atto ‘medicinale’ della Chiesa, destinato non a condannare, ma a stimolare il peccatore alla conversione. Coloro che assistono spiritualmente queste persone dovrebbero evitare qualsiasi gesto, come rimanere fino a quando non viene eseguita l’eutanasia, che potrebbe essere interpretato come approvazione o complicità di questa stessa azione. Questo principio si applica in particolare ai cappellani delle strutture sanitarie in cui si pratica l’eutanasia: essi devono essere prudenti per non dare occasione di scandalo, con forme, seppur, velate, di complicità.
- Un passo decisivo in SB è l’importanza attribuita alla corretta e sana formazione. La formazione soprattutto dei credenti, riveste un ruolo fondamentale. Famiglie, scuole, istituzioni educative e comunità parrocchiali devono lavorare con determinazione per risvegliare ed affinare quella sensibilità verso il nostro prossimo e la sua sofferenza. I cappellani ospedalieri dovrebbero intensificare la formazione spirituale e morale degli operatori sanitari, medici, personale infermieristico, volontari ospedalieri. L’assistenza psicologica e spirituale dei pazienti e delle loro famiglie deve essere una priorità per gli operatori pastorali e sanitari. Le cure palliative devono essere maggiormente conosciute e diffuse, organizzando corsi accademici. L’assistenza umana e spirituale deve nuovamente tornare al centro della più generale formazione accademica. Le organizzazioni sanitarie e assistenziali devono predisporre modelli di aiuto psicologico e spirituale per gli operatori sanitari che si prendono cura dei malati terminali.
Conclusione e riflessione
Quelle che seguono sono alcune riflessioni personali scaturite dalla lettera Samaritanus bonus, a partire dai principi sopra indicati.
- La vita umana terrena è piena di piccole speranze per raggiungere la più grande speranza della vita eterna, in Dio. L’esperienza di tutti gli uomini dimostra che queste piccole speranze sono sempre possibili, anche all’interno di una cultura dello scarto o di una cultura della morte. Queste piccole speranze scaturiscono dal ‘rispettare, difendere, amare e servire la vita, ogni vita umana’. La Chiesa alla scuola del buon Samaritano impara queste piccole speranze di cura gli uni per gli altri: mettere al centro del proprio cuore il volto del fratello nella sua vulnerabilità, vedere il suo bisogno ed offrirgli tutto ciò che è necessario per curare la sua ferita di desolazione e per aprire il suo cuore ai raggi luminosi della speranza. Il ‘volere il bene’, secondo la logica del samaritano, ci avvicina al ferito non solo con le parole o con la teoria, ma con azioni concrete. Assume la forma della ‘cura in Cristo’ perché apre l’uomo ferito e malato alla speranza anche nella stagione della fragilità dal momento che Cristo ha ricapitolato nella sua sofferenza tutte le sofferenze del mondo e le ha aperte ed immerse nella ‘grande speranza che non delude’.
- L’eutanasia e il suicidio assistito sono azioni contro la speranza e non sono mai un vero servizio al malato; costituiscono sempre la scelta sbagliata. Infatti, poiché non esiste il diritto di disporre arbitrariamente della propria vita, nessun operatore sanitario può essere obbligato a eseguire un diritto inesistente. Per questo motivo, è gravemente ingiusto emanare leggi che legalizzano l’eutanasia o giustificano e sostengono il suicidio. La legalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia è un segno del degrado dei sistemi legali, un segno di disperazione. La Chiesa chiede l’esercizio dell’obiezione di coscienza a queste leggi e ci invita a discernere in queste difficoltà un’occasione di purificazione spirituale che permette alla speranza di diventare veramente teologica, fissando lo sguardo su Dio e solo su Dio.
- Invece di indulgere in una falsa, e a volte stucchevole, condiscendenza, il cristiano deve offrire ai malati l’aiuto di cui hanno bisogno per non cadere vittime della loro comprensibile disperazione. Sapendo che la vita terrena non è il valore supremo e la felicità ultima è in cielo, il cristiano non si aspetterà che la vita fisica continui quando la morte è evidentemente vicina, ma piuttosto deve aiutare i morenti a riporre la loro speranza in Dio: la “fine della vita”, inevitabilmente presagita dal dolore e dalla sofferenza, può essere affrontata con dignità solo dalla risignificazione dell’evento stesso della morte aprendolo all’orizzonte della vita eterna e affermando il destino trascendente di ogni persona. Chi assiste le persone nelle fasi terminali della vita deve saper ‘saper stare’, saper vegliare con chi soffre l’angoscia della morte, consolarlo, stare con loro nella solitudine, stare con e per essere una grazia di speranza.
- Gli operatori sanitari, partecipi in modo integrante dell’alleanza terapeutica con il malato devono essere formati a riconoscere il valore trascendente della vita e il significato ‘mistico’ della sofferenza. Solo alla luce di questo patto terapeutico, può essere valorizzata una buona assistenza medica e potrà essere dissipata la visione utilitaristica e individualistica che prevale oggi.
- Le istituzioni sanitarie cattoliche sono chiamate a testimoniare fedelmente l’impegno inalienabile a favore dell’etica e dei valori umani e cristiani fondamentali che costituiscono la loro stessa identità ‘di opere cristiane’. Questa testimonianza richiede che si astengano da comportamenti palesemente immorali e che affermino la loro adesione formale agli insegnamenti del Magistero ecclesiale. Qualsiasi azione che non corrisponde allo scopo e ai valori che ispirano le istituzioni sanitarie cattoliche non è moralmente accettabile e mette in pericolo l’identificazione dell’istituzione stessa come ‘cattolica’.
- La Lettera SB invita tutte le persone di ‘buona volontà’ a prendersi cura dei morenti, poiché anche noi abbiamo bisogno della stessa cura quando la sofferenza umana ci tocca. È la nostra vulnerabilità che ci invita a prenderci cura degli altri nella loro fragilità.
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