“Come sono fatti i Santi” di Mario Palamaro
Come sono fatti, esattamente, i santi? Certe volte ce lo chiedono i bambini, che giustamente sono abituati – quando sono abituati bene – ad andare ad accendere un cero a San Giuseppe, a San Francesco, a Don Bosco, a Santa Rita. E si trovano davanti una meravigliosa – quando sono fortunati – statua di legno o di marmo, che rappresenta l’immagine di un campione della fede. Già: come sono fatti, esattamente, i santi?
Il santo è, innanzitutto, un uomo. Chi sorride divertito pensando alla banalità del secolo, si ricomponga: non c’è niente di più falso che pensare al santo come a un superuomo, o a un mezzo uomo, o a un alieno. Insomma, a una specie vivente fatto di una pasta diversa dalla mia e dalla tua che leggi. Il santo è l’uomo realizzato, pienamente realizzato. Fratel Ettore era uno di noi, nel senso che condivideva la nostra natura. Una creta già vista milioni, miliardi di volte. Il punto è che quella creta, nelle mani di Dio, genera lo spettacolo della santità.
Ed eccoci al secondo punto: il santo è uno che – per dirla con il grande Claudio Chieffo – “si fa fare”. Si mette docilmente nelle mani del Padre e fa la sua volontà. Resta fermo immobile, mentre i colpi di scalpello del Grande Artista trasformano una massa informe in un capolavoro. Più rimane fermo ed è docile, più in fretta finisce il suo lavoro il Grande Artista. Fratel Ettore aveva la spiritualità di un bambino, semplice, diretta, provocatoria, talvolta sconvolgente. Era sereno, perché si era fatto strumento. Si era lasciato fare, trasformare da Dio.
Il santo poi è un innamorato. Un innamorato di Gesù Cristo e della Madonna. L’innamorato vede la sua amata dappertutto, e il santo vede Cristo dappertutto. Così a Fratel Ettore, un giorno è capitato di vedere il volto del Nazareno sul viso anonimo di un relitto umano. Poteva tirare diritto, lasciandolo lì in mezzo alla sporcizia e alla miseria del più terribile abbandono? No, non poteva. Ed è da quell’incontro che è iniziata la grande avventura di Fratel Ettore che raccatta i barboni della stazione Centrale, che li ripulisce e li riveste, che li sfama con l’aiuto della Provvidenza. È così che nascono le leggende, perché Fratel Ettore ormai a Milano – e non solo – è diventato un personaggio da leggenda. Ettore Boschini era un innamorato di Maria: lo sapevano bene i milanesi, abituati a vederlo scorrazzare per la città con un vecchio furgone sul quale troneggiava l’immagine della Madonna di Fatima. E lo sapevano bene gli abitanti di Seveso, che passando davanti alla chiesetta con le pareti di vetro di Corso Isonzo vedevano all’interno una cappellina dedicata alla Vergine apparsa nel 1917 ai tre pastorelli.
Il santo è uno che moltiplica. Come Fratel Ettore, che moltiplica il pane per i poveri, che arriva quando sembra che non ce ne sia più. E moltiplica il gesto del buon Samaritano per migliaia di volte, così che un’intera città si accorge dei poveri e riscopre il suo cuore più nobile. E moltiplica le conversioni, perché quando la gente vede una fede così concreta, così semplice, così vera che si può toccare e prendere in braccio, allora riscopre la strada verso l’unica fonte della salvezza, che è la Chiesa.
Il santo è uno che vede quello che noi non vogliamo vedere. Si deve sapere che lo sguardo è una cosa importante. Joseph Ratzinger, prima di diventare Papa (e un grandissimo Papa) ha scritto che dal modo in cui noi guardiamo l’altro si decide della nostra umanità. E com’è vero. I cuori si induriscono, le persone si inaridiscono quando ci si abitua a guardare il mondo con lo sguardo dell’indifferenza, dell’odio, della smania di arrivare, di vincere, di prevalere. Fa un po’ male ammetterlo, ma può essere un esercizio salutare, l’inizio di una conversione. Quanti sguardi di disprezzo, non solo verso i clochard, ma anche verso una ragazza in stato vegetativo “che è meglio che muoia piuttosto che stare lì così”; quanti sguardi gelidi verso un figlio concepito che “è meglio per lui non nascere”; quanti sguardi disperati verso un anziano che non capisce più niente, al punto che “è meglio aiutarlo ad andarsene piuttosto che soffrire così”. Cento, mille, diecimila sguardi come questi uccidono. E ci uccidono dentro.
Il santo è uno che dice la verità. Fratel Ettore, che diceva la verità, era uno spettacolo pirotecnico, un Giovanni Battista nel deserto, un don Giovanni Bosco che va a corte ad avvertire i Savoia che non c’è futuro per le dinastie che perseguitano la Chiesa. Fratel Ettore era così: uno che si chinava sugli ultimi, ma che non amava l’ideologia solidaristica che mitizza il povero; uno che conosceva bene le miserie anche morali dei meno abbienti, che non sono “buoni” perché poveri, ma sono uomini. E come tali né migliori né peggiori di noi. Poveri noi e loro, nello stesso modo, quando non abbiamo Cristo.
Fratel Ettore era uno che diceva pane al pane e vino al vino, che urlava contro l’aborto legale, che non temeva di definirlo un delitto. Ettore Boschini incarnava alla perfezione il suo ruolo di figlio della Chiesa, che è madre e maestra. Che aiuta i poveri, ma non tace. Che riveste i clochard, ma non dimentica i bambini non nati. Che non pratica la solidarietà, ma la carità. Che ama tutti i suoi figli, anche se peccatori, ma non può benedire i matrimoni dei divorziati, o incoraggiare le convivenze matrimoniali. Quello di Fratel Ettore è stato un cattolicesimo autentico, e dunque un cattolicesimo senza sconti o saldi di fine stagione. Un cattolicesimo senza comfort, ben riassunto da quella grande croce rossa dei camilliani portata con orgoglio sul petto.
E, alla fine di tutto, il santo è inutile. Nel senso che il santo non cambia il corso della storia. Non risolve le emergenze sociali. Non rimuove le ingiustizie dalla società. Non costruisce paradisi del proletariato o della borghesia. Il santo non è misurabile con il metro dell’utilità, del risultato raggiunto, dei costi/benefici, della soddisfazione cliente. Il santo risponde solo a Dio e alla Chiesa. Fratel Ettore è passato come il suo Signore, “facendo il bene”, curvandosi sui poveri più sgradevoli e ripugnanti. Apparentemente, nulla è cambiato. Ma, ancora una volta, ciò che fa la differenza è lo sguardo. Lo sguardo di centinaia, migliaia di persone che hanno incontrato Ettore dei poveri, e si sono sentite, magari dopo molti anni, amate. Fa bene pensare che anche adesso Fratel Ettore continua a guardarci con quello stesso sguardo buono. Che Dio ci mandi ancora molte persone “inutili” come lui.
“Il quarto voto di fr. Ettore” – P.Vittorio Paleari
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