L’Osservatore Romano 12 febbraio 2015
Il rapporto assistenziale non può essere ridotto alla semplice interazione fra un sano e un malato, fra un tecnico che sa e un paziente bisognoso di aiuto, ma tra persone che si incontrano nel cammino della vita. Nel suo messaggio per la giornata mondiale del malato, Papa Francesco legge il versetto di Giobbe che costituisce il tema prescelto – «Io e gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» (29, 15) – nella prospettiva della «sapienza del cuore» e offre delle linee-guida, per quanti, impegnati nell’assistenza al malato e al sofferente.
La relazione tra il medico e la persona bisognosa di cura viene definita, nella Carta degli operatori sanitari, «un incontro tra un fiducia e una coscienza»; il rapporto assistenziale è quindi molto più complesso di quanto possa apparire. Nell’assistere, l’abilità e le capacità professionali sono naturalmente il primo requisito, ma non è sufficiente un freddo impersonale atteggiamento scientifico per aiutare un’altra persona tormentata dalla malattia, dalla sofferenza e dall’angoscia che ne possono conseguire. Non si tratta del mero adempimento di un compito ma, soprattutto per l’operatore sanitario, dello svolgimento di un servizio, cioè di un ministero che la tradizione cristiana chiama anche diaconia. Non è inoltre sufficiente un atteggiamento unicamente scientifico per tentare di comprendere la complessità del mondo interiore di ogni persona, che va oltre gli aspetti biofisici. Curare la persona significa in realtà tenerne presente sì le dimensioni fisiche, ma anche quelle psicologiche e spirituali.
Ecco che il Papa sostituisce, nella prospettiva della sapienza del cuore, i termini persona, paziente, malato con la parola fratello. La pratica medica e l’atto terapeutico possono così diventare una nostra testimonianza dell’amore di Dio nel cercare di lenire quella sofferenza che «sembra essere quasi inseparabile dall’esistenza terrena dell’uomo» (Salvifici doloris, 3).
Il Papa scende anche molto sul concreto quando rileva che una tale assistenza può comportare oneri fisici, psicologici, spirituali per un operatore o anche per uno stesso familiare, specialmente quando essa è impegnativa e si prolunga nel tempo. Eppure essa è il luogo della proclamazione del regno, quando il gesto assistenziale è un tempo santo che, dice il Papa, è lode a Dio, che conforma all’immagine di suo Figlio, il quale «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Matteo, 20, 28).
Di una tale assistenza si può cogliere un’immagine quando il Papa, nella Evangelii gaudium richiama «alla fede salda di quelle madre ai piedi del letto del figlio malato che si afferrano ad un rosario anche se non sanno imbastire le frasi del Credo; o a tanta carica di speranza diffusa con una candela che si accende in un’umile dimora per chiedere aiuto a Maria» (n.125).
Così, se i codici deontologici impegnano a essere sempre servitori della vita, il Vangelo spinge oltre, ad amarla sempre e comunque, soprattutto quando necessita di particolari attenzione e cure.
Gli operatori sanitari sono chiamati a riscrivere ogni giorno la parabola del buon samaritano, colui che si fa prossimo a chi soffre utilizzando continuamente «la carità terapeutica di Cristo» a favore dello stesso Cristo presente nel sofferente.
È questa una testimonianza che si colloca in un momento culturale in cui, scrive il Papa nel messaggio, una «grande menzogna» si nasconde dietro certe espressioni che insistono tanto sulla “qualità della vita”, e si tende a diffondere e radicare quella “cultura dello scarto”, ch’egli più volte menziona nei suoi discorsi. Tale testimonianza può essere prestata anche se viviamo in un tempo che è –sottolinea – dominato dalla frenesia del fare, del produrre e del vendere, che fa dimenticare, in un’ottica prettamente individualista, la dimensione della gratuità; l’altro può essere visto addirittura solamente come un concorrente, in una visione economica che sembra aver accantonato quella Parola del Signore che dice «l’avete fatto a me» (Matteo, 25, 40). Testimoniando si riconoscerà nell’”altro”, nel fratello, anche malato e sofferente, un valore e una ricchezza umana e cristiana. Si tratta allora, per gli operatori sanitari impegnati nel sollievo delle sofferenze umane, di contribuire a quella «cultura dell’accoglienza», ricordata da Papa Francesco, nella quale il valore di una persona, del fratello o della sorella, non dipende dall’età o dalle sue condizioni di vita.
Il messaggio esprime quindi un’ulteriore preoccupazione, quella di servire il fratello evitando ogni giudizio, come accadde agli amici di Giobbe che, pur disponibili ad aiutare e mossi da una sincera amicizia, nella prospettiva teologica del tempo leggevano la situazione di Giobbe come quella di un peccatore che doveva accettare e scontare le proprie colpe e, forse addirittura mostrandosi talmente ostinato da non riconoscerlo, così da aumentare il proprio fardello.
La risposta ai bisogni di un sofferente deve nascere dunque dal comune «essere nella vita», dalla comune «partecipazione alla stessa natura umana» lasciando così spazio alla comprensione e anche alla misericordia. Per cercare quindi di realizzare un corretto e cristiano rapporto assistenziale si deve iniziare da una conversione personale.
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