di Gianfranco Lunardon
Così tu, mondo malato, ti inganni di stare bene
quando, ahimé! Sei in un letargo…
Non c’è salute; i medici dicono che noi
al meglio, godiamo di una neutralità.
E può esserci peggiore malattia del sapere
che non stiamo mai bene, né lo possiamo stare?
—tratto da “Una anatomia del mondo” di John Donne
La storia dell’Homo sapiens convive da sempre con le epidemie. Nulla di nuovo dunque, o questa pandemia, innescata dal Covid-19, porta con sé segni e significati inaspettati?
I virus vanno visti anche nel tempo e nel contesto di origine e di propagazione. La loro storia comincia quattro miliardi di anni fa, molto prima della nostra, e lungo il cammino, hanno sperimentato il «salto» dall’ospite animale a quello umano. La novità è che ora sembrano evolversi in un ambiente che l’uomo sta modificato radicalmente e rapidamente, soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale.
Dobbiamo capire come l’antropocene cambia la vita di questi microrganismi patogeni e cosa dobbiamo modificare noi, nel nostro modo di vivere, per potercene difendere meglio. Siamo sempre più attrezzati scientificamente per farlo, ma per affrontare il tema delle epidemie nella sua complessità, dobbiamo smettere di considerarci padroni autocrati della natura.
Questa crisi, pure con tutte le sofferenze che porta con sé, potrebbe essere ricordata come un esame di maturità per l’uomo contemporaneo. La pandemia ci pone di fronte ai rischi della condizione globale.
La condizione umana è trasformata da un imprevisto e simultaneo aumento di potenza e d’interdipendenza tra gli uomini. Già l’esplosione atomica di Hiroshima nel 1945 – giusto per prendere un unico riferimento che ha avuto un impatto emotivo colossale ed ha confermato in modo drammatico il potere dell’uomo sulla natura – era stata la campana d’allarme di una possibilità fino ad allora inconcepibile: l’autoannientamento dell’umanità.
Da lì è nata una comunità di destino planetaria, di tutti i popoli della Terra: abbiamo scoperto di vivere in un’ecumene completamente umanizzata, dove ogni evento locale rischia di comportare, almeno in potenza, conseguenze che possono amplificarsi su scala globale.
Questo oggi si rivela attraverso il volto invisibile di un virus e dilata all’estremo l’orizzonte delle responsabilità individuali e collettive. La crisi sanitaria può farci partecipare a questa coscienza in modo più intenso e forse irreversibile: perché rende evidente quanto siano complessi e inestricabili i fili della globalizzazione antropologica, culturale, economica e politica.
Abbiamo, però, ereditato dal paradigma cartesiano – cogito ergo sum – l’abitudine a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice, anche se a volte non riusciamo a vederla; vorremmo sempre trovare un ordine, un funzionamento elementare nelle cose o una soluzione univoca e semplice ai problemi. Il morbo della semplificazione si accompagna, poi, alla droga della quantificazione. È anche un’urgenza morale, quindi, adottare un nuovo paradigma, che ci porti ad accettare la complessità del mondo.
Mauro Ceruti, teorico del pensiero complesso, nel suo saggio Evoluzione senza fondamenti scrive: «Sta emergendo la soglia di un’età nuova. Per poter attraversare questa soglia, siamo costretti a farci carico di quanto nell’età moderna si è cercato di dilazionare, siamo spinti ad affrontare gli eventi in tutta la loro crudezza e potenza, creatrice e distruttrice, senza confidare nel fatto che qualche ordine nascosto o senso prestabilito li possa in qualche modo disinnescare». Oggi quelle parole sembrano quasi profetiche…
L’illusione, tipica delle ideologie politiche dell’Otto-Novecento che promettevano una «salvezza» terrena, sembra essersi incamminata verso il suo tramonto, rivelandosi una vera delusione! L’irruzione del negativo – del peccato! –, della crudeltà, della cinica autoreferenzialità è sempre possibile, all’interno e dall’esterno dell’uomo. Essere consapevoli della complessità umana significa riconoscere che, come dice Edgar Morin, l’uomo è anche de
mens, non solo sapiens.
Capire il nostro legame complesso con la natura significa accettare che in essa abitano disordine e distruttività che non possiamo dominare completamente. Inutile illudersi, in chiave prometeica, di superare la nostra finitezza di esseri mortali, slanciandoci come Icaro con le nostre ali verso il sole, per scoprire che il loro collante … era solo cera! L’uomo deve imparare l’etica della comprensione, della resilienza, della resistenza alla crudeltà inestirpabile del mondo.
Infine, ciò che accade archivia definitivamente ogni credenza provvidenziale nel progresso, l’idea del progresso come legge ineluttabile della Storia e come dimensione quantitativamente misurabile con i soli indicatori di crescita, di reddito, di produzione, di iper-connessione, di visibilità, etc…
La Storia non sembra orientarsi verso il progresso garantito, che nelle ultime decadi ha assunto un profilo quasi ‘soteriologico’, ma verso una straordinaria incertezza. E l’umanità dei nostri giorni deve apprendere a pensarsi come umanità proprio a partire dal pericolo che lega tutti i popoli allo stesso destino, di vita o di morte.
Oggi tutti noi capiamo meglio che il progresso è sempre problematico e può accompagnarsi a regressioni. La storia dell’humanum e le teorie dell’evoluzione ci dicono che siamo esseri incompiuti e in divenire. Possiamo accrescere la nostra potenza, ma restiamo in una condizione di fragilità che adesso, dopo questa pandemia, appartiene un po’ di più diffusamente alla coscienza comune e alla consapevolezza di un destino comune.
Forse, oggi, riusciamo a riappropriarci di un’antica lezione, che la mitologia ha custodito per noi: l’uomo, ogni uomo, figlio di Poros (Ricchezza) e di Penia (Povertà) è Eros (Amore), simbolo antropologico (cfr. Platone nel Convivio) e si manifesta come un fascio di bisogni: ossia eterno mendicante dell’essere, sente di non bastare mai a sé stesso.
Di questa consapevolezza dobbiamo fare un punto di forza. Vale a dire: come la complessità chiede al pensiero di non frazionare, separare, ma di collegare, così questa coscienza comune della nostra fragilità può sollecitarci a un’etica della solidarietà, della fraternità planetaria. Dopo libertà e eguaglianza, protagoniste dell’Ottocento e del Novecento, la ‘cura’ può diventare – come nuovo paradigma – protagonista del XXI secolo.
Igino, uno scrittore latino, vissuto qualche anno prima di Cristo, nel suo compendio mitologico intitolato Fabulae, così personifica la ‘CURA’.
«La Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre era intenta a stabilire cosa avesse fatto, intervenne Giove.
La Cura lo pregò di infondere spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsentì volentieri. Ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre Giove e la Cura disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo.
I disputanti elessero Saturno (=Cronos=Tempo) a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione:
“Tu, Giove (=cielo), che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito, tu Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)”».
Nella visione di Igino è la dea Cura che compie quel gesto stupendo, nella sua ‘artigianalità’ di impastare l’uomo, di modellarlo a partire dal fango della materia, quel gesto che la Bibbia attribuisce a Dio. Ma chiede a Giove (Dio supremo), al Cielo, di infondere lo spirito alla sua creatura ‘fangosa’ (Homo-Humus / Adam-Adamà). Allora si scatena il conflitto: a chi appartiene l’uomo?
Il giudice, Saturno ossia il Tempo, così decreta: lo spirito a Giove (al Cielo); il corpo alla Terra; ma durante la vita lo possegga Cura.
L’uomo, finché è nel mondo, non è abbandonato dalla sua origine (la Cura), che è anche la sua forma. Il nome (homo) gli è dato non in vista del suo essere, ma in base a ciò di cui consiste (humus). La dec
isione sul suo essere spetta al tempo (Saturno).
La Cura è IL modo di essere nel mondo da parte dell’uomo: fa coincidere il bene dell’uomo nel compimento della cura. Come tale, emerge che la cura NON è – come si intende solitamente! – espressione romantica di sentimenti opzionali, ma un costitutivo necessario sia per chi-cura (caregiver) sia per chi-riceve-cura. L’attitudine alla cura dice la struttura d’essere di chi-cura, la qualità e la densità della sua struttura antropologica ed umana; ma la cura garantisce anche la qualità umana a chi-riceve-cura che affida i suoi bisogni e le ferite (vulnus) alla cura altrui.
Cura, ritratta come una dea minore, è concepita come la cura che “risiede nell’uomo” e lo “tiene” (letteralmente) insieme. Nel testo di questo mito, il significato della parola “cura” si trasforma, progressivamente passando dalla connotazione originaria di “cura-come-affanno”, come “cura ansiosa”, a quella stoica di “coscienziosità”, “preoccupazione per”, “sollecitudine”. Una cura che provvede, ma senza dargli necessariamente tutto ciò di cui ha bisogno dal punto di vista materiale. Prevale cioè il concetto di una presenza, in cui Cura custodisce l’uomo, senza abbandonarlo mai.
A grandi linee storiche vediamo che la filosofia antica ha pensato alla cura di sé, il cristianesimo ha trasferito l’oggetto della cura dal sé al prossimo e, infine, la filosofia e la teologia si sono maggiormente interessate alla cura verso l’altro da me.
Nella filosofia antica la cura è soprattutto “cura sui”, cura di sé, un autogoverno della propria soggettività che si declinava nella ricerca della virtù (Platone e Aristotele), nella disciplina del desiderio (nello stoicismo), nella ricerca del piacere del “tetrafarmakon” epicureo (gli dei non sono da temersi, la morte è senza rischio, il bene è facile da acquisire, il male è facile da sopportare). L’antropologia di fondo è quella del σομα-σημα, del corpo che è il sepolcro dell’anima, secondo un’antropologia dualista.
Il mito suggerisce che la vita umana, sin dai suoi albori, è strettamente in contatto con le forze universali: il cielo rappresentato da Giove, la terra rappresentata da Tellus e il tempo rappresentato da Saturno. La scelta di affidare a quest’ultimo l’ardua decisione è fortemente significativa. Infatti, …vi è cura se vi è tempo. L’uomo può prendersi cura a partire dal sentimento del suo essere esposto. Solo ciò che può perdersi ha bisogno di cura e non certo ciò che è sicuro, stabile, eterno. La cura tende a custodire ciò che trapassa, a dare consistenza, per quel che può, a ciò che svanisce. La cura prende in custodia quel che appartiene al tempo. Prendersi a cuore significa, in senso stretto, adoprarsi per la realizzazione di sé nel tempo. Di più: nel tempo a ciascuno assegnato. Nessuna realizzazione è possibile al di fuori dell’esistenza. E l’esistenza è temporalità. Ai fini di una buona riuscita bisogna ben amministrare la durata.
A Cura, invece, viene assegnata una funzione integratrice tra le varie forze universali che condizionano la vita umana. Anche se radicati nella natura, siamo marcati da una tensione continua verso il cielo. Apparteniamo alla terra, ma anche il cielo è dentro di noi. Siamo “desiderio”. E il mito ci ricorda che la sintesi tra dimensione naturale e dimensione trascendente si coniuga nella storia, nel tempo: la decisione intorno alla natura dell’uomo spetta infatti a Saturno, al Tempo.
Inoltre, stando al mito, Cura precede sia l’elemento spirituale, sia l’elemento corporeo e ha impresso la sua forma nell’intimo dell’essere umano. Senza Cura l’uomo rimarrebbe o semplicemente terra, o soltanto uno spirito disincarnato. Si disumanizzerebbe. È Cura che ci modella con la sua energia rigeneratrice; che coniuga nell’uomo terra e cielo, spiritualizzando il corpo e umanizzando lo spirito. È Cura che, quale principio informante, mantiene (“teneat”) l’essere umano fatto di terra e di spirito in una unità sempre sfuggente, “guarendo” così il male radicale dell’uomo: la divisione, la disgregazione.
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