Pietro Magliozzi
Medico Missionario Camilliano
Il valore dell’amicizia era fondamentale per P. Alessandro. La coltivava anche a costo di grandi sacrifici personali: ad esempio scriveva e riceveva una quantità enorme di lettere. Una volta, nel corso di un anno non ancora terminato, mi disse di aver già raggiunto un totale di 300 lettere, tra ricevute e scritte. Restava sveglio la notte per poter scrivere e rispondere, perché diceva che, mentre di giorno non trovava il tempo, la notte riusciva a lavorare meglio. Si impegnava concretamente per aiutare a risolvere i problemi che gli ponevano i suoi amici per lettera. Durante l’ultimo anno di vita iniziò a selezionare le amicizie epistolari che riteneva più importanti, ma metteva sempre a disposizione degli altri molte energie: la sua coscienza “gli imponeva” almeno di rispondere a tutti. Una volta mi disse: “Quando qualcuno mi scrive, per colui o colei che scrive, è uno sforzo e una speranza, non posso deluderli non rispondendo“.
Le amicizie romane e italiane erano coltivate anche da visite fatte e ricevute e da telefonate. Il suo modo di comunicare era gioviale, confidenziale, fraterno. Sorrideva e rideva parlando, secondo la sua cultura, e trasmetteva una grande cordialità, entusiasmo e tanta gioia di vivere. Sapeva cogliere in maniera empatica ciò che agitava il cuore degli altri e sapeva come “tirar fuori” con delicatezza tali sofferenze; è per questo che molti amavano confidarsi con lui e scaricare su di lui le proprie sofferenze e i propri problemi. Era facile inoltre vederlo arrivare al confronto, quando erano toccati o violati dei valori morali e religiosi. Tutte queste qualità relazionali lo rendevano, senza grande sforzo da parte sua, il primo della classe al corso di CPE (Educazione Pastorale Clinica, cioè relazione di aiuto pratica con supervisione) al Camillianum (Istituto Internazionale di Teologia Pastorale Sanitaria). Per vivere meglio i valori dell’amicizia egli decise dopo il suo primo anno di soggiorno in Italia di non portare l’abito camilliano durante le attività accademiche e pastorali poiché, diceva, “Mi accorgo che l’abito crea una certa distanza tra me e l’interlocutore il quale non è più spontaneo con me“. Al primo posto per lui c’era la relazione interpersonale tra due “IO”, tra due valori infiniti.
In comunità c’erano alcuni confratelli con i quali instaurava una confidenza reciproca, con altri manteneva un rapporto corretto di rispetto, ma a distanza. Aveva una grande nostalgia della sua comunità di Wem-Tenga e ne parlava come di un modello comunitario. Metteva a disposizione di tutti ciò che aveva: libri, oggetti, ma soprattutto la sua conoscenza approfondita del computer. Accorreva con prontezza ogni volta che qualcuno si trovava in difficoltà e si rivolgeva a lui.
Un aspetto particolare della sua persona era, a mio avviso, un fortissimo senso morale. Quando si accorgeva di comportamenti morali che violavano le norme morali della giustizia, della lealtà, della sincerità, della testimonianza, della consacrazione, dei quattro voti, del culto dovuto a Dio…, non restava indifferente, ma ne soffriva molto.
Non riusciva ad accettare il fatto della sua impotenza di fronte al male del mondo. Aveva una coscienza estremamente sensibile di fronte al male, un carattere che raramente ho incontrato. Quando nella fase finale della sua malattia, a poco a poco il cancro gli stava togliendo con crudeltà una ad una le note più caratteristiche della sua personalità, la sensibilità di cui ho poc’anzi parlato è stata una delle ultime a sparire.
Amava conoscere. Quando la salute glielo permetteva usciva, si informava, leggeva quotidiani e riviste. Aveva una buona memoria. È l’unico confratello che sia venuto con me a Gaeta, 200 Km a sud di Roma, la mia città natale. Una intelligenza curiosa, – nel senso positivo -, vivace, assetata di comprendere. Amava la natura, la sera guardava spesso la televisione, specialmente i documentari sugli animali.
Amava far conoscere a quelli che lo desideravano, la sua cultura, la sua gente e il suo paese. Quante volte a tavola gli ponevo delle domande al riguardo ed egli parlava ad alta voce, come era suo solito, delle cose belle del Burkina Faso, del modo di vivere e di considerare la vita del suo popolo e anche delle cose meno belle che egli sapeva criticare ed esaminare. Nella sua maniera di parlare appariva con evidenza il grande amore per la sua terra e la sua gente. Alessandro parlava poco di se stesso volendo essere coerente con l’alto grado di riservatezza propria del suo popolo.
La vita spirituale era tenuta da lui in grande considerazione e con me si lamentava di non riuscire a coltivarla come avrebbe voluto, soprattutto per mancanza di tempo. Tuttavia riusciva a concedersi di tanto in tanto un periodo per poter meditare in qualche luogo spirituale tutto solo e in silenzio.
La scuola e lo studio rappresentavano per lui un impegno serio, ma anche un luogo di amicizia e di scambi di gesti di generosità. Aiutava con grande disponibilità tutti coloro che gli chiedevano una mano. Arrivava fino a ripetere l’intero corso traducendolo in francese per l’amico in difficoltà. Il problema “tempo” (che spendeva soprattutto per aiutare gli altri e per la sua salute) lo faceva arrivare sempre agli esami con qualche problema, e per questo, studiava la notte, uno sforzo che aveva poi una ripercussione negativa sulla sua salute. Ma per lui al primo posto c’erano gli altri e i loro bisogni. Tuttavia i risultati degli esami erano sempre eccellenti.
Il suo rapporto con la salute fisica era duplice. Da una parte egli si curava essendo fedele al suo regime alimentare, molto fedele nel prendere le medicine, fedele alle visite mediche e ai controlli di laboratorio e strumentali. Dall’altra parte non si preoccupava delle fatiche che faceva per gli altri: insegnare ad usare il computer, rispettare gli impegni presi: scelte che non aiutavano la sua salute e di cui lui aveva coscienza.
L’atteggiamento di fronte alla sua malattia era di fede: “Io non prego per la mia guarigione, ma perché Dio compia la sua volontà nella mia vita“. “La vita è un dono che non ci appartiene”, ripeteva sovente, “tutto il tempo che abbiamo da vivere è qualcosa per ringraziare Dio”. La speranza della guarigione non l’ha mai abbandonato, ma vedeva la guarigione come un’opera di Dio e della medicina ufficiale alla quale si era abbandonato ciecamente.
Sognava di diventare medico, e ciò gli dava forza. Sottolineava molto l’importanza della guarigione fisica dei malati e della soluzione dei loro problemi pratici. Una volta procurò un biglietto aereo per un malato di AIDS in fase terminale per permettergli di ritornare in Africa presso i suoi, per risolvere alcuni problemi familiari.
Il sacerdozio rappresentava nella sua vita una tappa di un significato e di un valore enorme. Averlo raggiunto era stato per lui un tale dono che gli faceva relativizzare ogni cosa esteriore e materiale compresa la perdita della sua vita fisica. Mi ricordo di come egli gustava la celebrazione eucaristica.
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