Tra Camillo de Lellis e Francesco d’Assisi ci sono affinità di ordine esterno puramente fortuite ed altre di ordine esterno puramente fortuite ed altre di ordine interno. Il fatto che ambedue vengano dall’esperienza del gioco e della guerra, siano dei convertiti, attraversino delle malattie, si trovino alle prese con lo stesso problema di adeguare l’ideale alle situazioni storico-culturali rinunciando in parte alla sua integrità, non sono elementi che di per sé depongono per una loro vicinanza di spirito. Neppure il carattere di radicalità con coi propongono il loro messaggio può essere considerato come qualcosa di loro peculiare.
Il confronto si fa più stimolante non appena si prendano in considerazione gli aspetti attitudinali della loro spiritualità: il crocifisso, i malati, la povertà, la gioia, la fratellanza universale. Non bastano infatti gli espliciti riferimenti di Camillo a Francesco, riconosciuto come modello, per capire se le movenze della sua anima siano di conio francescano. La vicinanza tra i due va cercata soprattutto negli atteggiamenti spontanei, scevri da intenzionali richiami esemplari. Al di là perciò d’una raccolta di dati biografici o episodi letteralmente analoghi, il confronto va spostato nell’humus da cui sorgono determinati reazioni in risposta a sollecitazioni esterne.
Potrebbe risultare molto utile agli effetti del confronto notare che Camillo è stato iniziato alla vita religiosa nel convento dei Cappuccini in una scuola di inequivocabile spirito francescano. Eppure anche questo particolare, per quanto prezioso, è ancora un dato esterno che non depone per il sentire francescano di Camillo. L’apporto educativo plasma ma non crea la natura. È questa a decidere il tipo di sensibilità d’un individuo. La legittimazione d’un francescanesimo in Camillo può venire soltanto dall’analisi dei suoi ideali e dei suoi sentimenti più che dalla testimonianza dei singoli fatti o detti.
Il confronto, oltre che somiglianze, offre differenze di ordine psicologico e culturale. Intorno alla figura di Camillo s’apre uno scenario tutt’altro che idilliaco come il paesaggio di Assisi dove ha operato Francesco. Da Assisi, sia pure travagliata da guerre, si è trasferiti a Roma nel periodo che intercorre tra il ‘500 e ‘600. È la Roma delle febbri, inondazioni, carestie, pestilente, dei luoghi della disperazione ignorati dalla storia ufficiale ma messi a nudo come Camillo. La sua grinta è come quella del lottatore tenace ed ostinato là dove invece Francesco rivela un’indole più distesa, pronto al canto come lo può essere un giullare.
Camillo lega la sua vita alla causa dei malati e da questi non si staccherà più. Entrato nell’ospedale non lo lascerà se non con la morte. La sua azione ha un solo orizzonte ed è mossa da un’unica grande passione: la persona del sofferente. Confessa ripetutamente: «Voglio servire e ministrare i poveri di Cristo, perché questo è tutto il mio desiderio e fine» (Spir.59). «Non crediate ch’io abbia altri pensieri in testa, se non servire gli infermi e i poveri e morire per loro» (Spir. p. 52).
Eppure in lui c’è un’anima che ripropone il vangelo secondo lo spirito francescano. L’amore di Camillo al malato, la sua attenzione al crocifisso, il suo spirito di povertà e lo stesso suo modo di rapportarsi alla natura si pongono nell’alveo della corrente francescana.
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