di Gianfranco Lunardon
Papa Francesco nella lettera apostolica indirizzata a tutti i religiosi in occasione dell’Anno della Vita Consacrata (28 novembre 2014) ci invitava a fare i conti con la nostra storia e la nostra memoria, coltivando un profondo senso di gratitudine. «In questo Anno sarà opportuno che ogni famiglia carismatica ricordi i suoi inizi e il suo sviluppo storico. Raccontare la propria storia è indispensabile per tenere viva l’identità, così come per rinsaldare l’unità della famiglia e il senso di appartenenza dei suoi membri. Non si tratta di fare dell’archeologia o di coltivare inutili nostalgie, quanto piuttosto di ripercorrere il cammino delle generazioni passate per cogliere in esso la scintilla ispiratrice, le idealità, i progetti, i valori che le hanno mosse, a iniziare dai Fondatori, dalle Fondatrici e dalle prime comunità. È un modo anche per prendere coscienza di come è stato vissuto il carisma lungo la storia, quale creatività ha sprigionato, quali difficoltà ha dovuto affrontare e come sono state superate. Si potranno scoprire incoerenze, frutto delle debolezze umane, a volte forse anche l’oblio di alcuni aspetti essenziali del carisma. Tutto è istruttivo e insieme diventa appello alla conversione. Narrare la propria storia è rendere lode a Dio e ringraziarlo per tutti i suoi doni».
È in questo contesto di memoria che ricordare p. Camillo Cesare Bresciani come Alter Camillus e come Secondo Fondatore ci riporta dentro una solida realtà storica. Al termine della sua vita, il 20 luglio 1871, all’età di 88 anni, lasciò al nostro Ordine camilliano un’eredità spirituale e riformatrice che senza esitazione è sempre stata ritenuta importante come quella di Camillo de’ Lellis.
Le guerre che già diverse volte avevano visto i religiosi di s. Camillo compatti ed in prima linea sui vari fronti, nel servizio ai feriti ed ai morenti, sul finire del secolo XVIII e nella prima metà del secolo XIX, sconvolgono l’Ordine camilliano. Nel 1810 insieme ad altri Ordini religiosi, il superiore generale Michelangelo Toni verrà incarcerato e poi deportato a Parigi ed in Corsica. Nel 1814 viene liberato, ed inizia, con il consenso di papa Pio VII, una rinascita dell’Ordine, riallacciando tutti i contatti possibili con i confratelli dispersi, rianimando gli sfiduciati. Alla sua morte nel 1821 erano ‘risorte’ 22 comunità.
Questo piccolo “resto” dell’Ordine, deve far fronte nel 1835 in Italia, all’epidemia di colera: anche se pochi, i camilliani sono presenti come sempre in ogni lazzaretto, attivi, pronti al dono della vita, secondo lo spirito del loro quarto voto religioso. In questo periodo di grandi tensioni sociali, compare nell’Ordine una nuova figura: si tratta di don Cesare Bresciani, sacerdote diocesano di Verona, dove è nato nel 1783.
Egli, brillante poeta ed oratore, ha scelto con determinazione di impegnarsi nel lazzaretto veronese nell’assistenza ai colerosi colpiti dal morbo, giunto in città nel 1836. Legge con attenzione e passione la vita di Camillo de’ Lellis, la medita; non è facile da imitare, ma ha un suo fascino travolgente. Egli ha come s. Camillo, la passione per i poveri, gli ammalati, i sofferenti. Fa parte della ‘Sacra Fratellanza dei Preti e Laici Spedalieri’, che raggruppa a Verona persone caritatevoli e spontanee, che assistono gratuitamente i malati nei loro bisogni spirituali e corporali.
Anche don Cesare Bresciani crea intorno a sé un gruppo di sacerdoti, alcuni studenti di filosofia, dei laici, vivendo in una piccola casa molto povera: mentre i sacerdoti assistono spiritualmente gli ammalati, i laici come infermieri, giorno e notte a turni rispondono ai loro bisogni sanitari. Nel 1837 scrive a p. Luigi Togni, superiore generale dei camilliani, dichiarando: “siamo camilliani senza averli veduti; la nostra Regola è la vita di s. Camillo che leggiamo ogni giorno, si può dire che la vocazione ci è venuta con la lettura. Lavoriamo giorno e notte, vestiamo e mangiamo poveramente”.
Era cresciuta a Verona una sorta di presenza camilliana senza Camilliani, in un ambiente orientato a suscitare istituti di pieta e di carità, come testimonia il dipinto del canonico Agostino Ugolini, di recente recuperato e restaurato dai Camilliani di Verona. Nell’aprile 1828 don Bresciani, già cappellano maggiore al Civico ospedale, fu chiamato a subentrare nella direzione spirituale del Ricovero dell’Ospedale di Verona (che ospitava piu di settecento degenti), per concorde volontà della direzione ospedaliera, della Commissione di pubblica beneficienza (creata nel 1817) e del vicario generale della curia veronese.
Dopo aver partecipato alla realizzazione di una casa per fanciulli abbandonati nel 1829, alla fine del 1830 il Bresciani doveva affrontare con le autorità pubbliche e con le opere assistenziali veronesi il sopraggiungere dei primi casi del colera “cui si unirono casi frequenti di vaiolo e di tifo petecchiale”, destinati a riesplodere nella primavera degli anni seguenti, ravvivando l’emulazione dell’esperienza camilliana del soccorso agli ammalati a rischio della propria vita.
“Sono due le vie aperte al ministero degli infermi, la materiale e la spirituale, per cui non camminare ma correre deve il pio Camilliano. L’oggetto, a cui sia di braccia e petto, sia di stola e sacri carismi egli aspira, è sempre l’infermo il quale raffigura e si rappresenta in una profonda e misteriosa estetica incredibile, ma pur vera, cioè la pietà umana e a carità divina; perché egli e un Dio che si nasconde tra i poveri cenci e i velami dell’ammalato e moribondo … La carità divinizzerà i vostri passi”.
Emergono in modo semplice e lineare i tratti costitutivi della rinascita e dell’attualità del carisma camilliano: il profilo spirituale e carismatico, il coinvolgimento comunitario ed obbedienziale all’istituzione, l’attenzione simultanea allo cura spirituale e alla dedizione corporale della persona malata, in una fedeltà profonda attraverso la quale p. Bresciani ha saputo andare oltre le mentalità personali e gli schemi formali, vissuta a tratti con sofferenza in tutta sincerità, ma che ha portato i suoi frutti, assicurando la presenza del Signore.
La recrudescenza del colera e poi del tifo petecchiale si farà drammatica a Verona fino al 1850; il colera, di nuovo nel 1855, mette a dura prova la fondazione camilliana veronese. Molti confratelli muoiono nell’assistenza dei contagiati mentre scrivono pagine di carità visibile e autentica che ci riportano direttamente ai nostri albori, alla biografia stessa di san Camillo. Un giovane chierico si lamenta con p. Luigi Artini per non essere stato scelto per l’assistenza diretta ai colerosi; nel 1855 muore, tra i primi contagiati, fr. Giuseppe Rossini e p. Bresciani così ne tratteggia lo spirito con cui è vissuto e morto: “la Provvidenza lo voleva vittima di carità a Verona perché qui avesse a gettarsi la radice della stima del nostro ministero di carità, dove la pianta ebbe a ricevere il primo innaffiamento dalla terra e dal cielo alla dilatazione nelle nostre contrade lombardo-venete”.
Come spesso capita nella vita, anche gli ideali più elevati devono confrontarsi con le strettoie della storia; gli slanci e le tensioni ideali degli inizi devono patire la loro inevitabile immersione nella moderna contemporaneità ad intra e ad extra: le tensioni nell’Italia pre-unitaria e la collocazione dell’identità provinciale nella nuova ‘patria’.
L’intenzione del Bresciani è di confluire nell’Ordine di s. Camillo ma con qualcosa di nuovo; per questo occorrono i permessi del superiore generale a Roma, della curia vescovile di Verona, della Santa Sede, del governo austriaco, essendo Verona parte dell’Impero asburgico.
Saranno soprattutto gli scontri e le mediazioni di prospettiva tra il centro – ‘il governo centrale di Roma’ – e la periferia dell’Ordine a scuotere e a mettere a dura prova p. Bresciani, fino a giungere ad un onorevole compromesso tra una progettualità provinciale e la leadership nazionale per una Provincia, quella lombardo-veneta, che nazionalizza l’Ordine ed un Ordine che orienta la Provincia medesima.
Il rapporto tra ‘Roma’ e la fondazione camilliana veronese è difficile da definire nei suoi dettagli, sicuramente fu piuttosto altalenante a seconda dei religiosi che si succedettero nel governo dell’Ordine. Il generale p. Luigi Togni definì le case camilliane di Verona la “consolazione del suo cuore”; p. Camillo Guardi, allora vicario generale e poi superiore generale, parlò della fondazione del Bresciani come “di grano trapiantato nelle venete contrade per farvi germogliare il nostro Santo Religioso Istituto… ed ora è diventato una pianta ben solida, estesa nei rami, ricca di foglie e, quel che più conta, rigogliosa e ricca di frutta”. Gli atteggiamenti cambiarono in peggio e le tensioni si acuirono con la nomina papale a superiore generale dell’Ordine di p. Francesco Italiani, che tra l’altro fu maestro di noviziato di p. Bresciani, a Casale Monferrato.
Nonostante le incomprensioni che si erano generate fra la fondazione di Verona e la Curia Generalizia di Roma, accompagnate da notizie diffidenti, non sempre veritiere, p. Bresciani non indietreggiò nel portare avanti la riforma del carisma camilliano, con l’intima pace di chi ha sempre cercato il disegno di Dio, la pietà verso i poveri e ammalati e l’armonia tra i religiosi.
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