A cura di Paolo Guarise
Seppure a malincuore è arrivata anche per P. Francesco Avi, religioso camilliano e medico missionario, l’ora di partire.
Avi è giunto a tale sofferta decisione a causa dell’età avanzata e per problemi di salute. Se fosse stato per lui, egli avrebbe continuato a visitare e operare i suoi malati all’ospedale di Tabaka (Kenya) dove ha passato gran parte della sua vita.
Il giorno prima di prendere l’aereo che l’ha riportato in Italia, P. Avi l’ha trascorso al Seminario S. Camillo di Nairobi, dove ha salutato confratelli, seminaristi e suore. Durante la cena di saluto noi – seminaristi e formatori – abbiamo organizzato una breve “cerimonia” per dimostrare la stima e l’affetto che abbiamo nei suoi confronti. Abbiamo costituito P. Avi “anziano masai” rivestendolo del coloratissimo mantello masai e mettendogli in mano lo scettro (rungu in lingua swahili) che assieme caratterizzano ogni anziano masai di questa parte dell’Africa.
Con tale “cerimonia” – che P. Avi ha molto apprezzato – gli abbiamo voluto dire che, anche se ritornerà in Italia definitivamente, egli rimarrà sempre il nostro “mzee”, il nostro anziano patriarca che continua a trasmetterci la sua saggezza, il suo affetto, la sua esperienza di fedele religioso camilliano e solerte medico missionario.
In un momento di pausa mi sono appartato con P. Avi e gli ho posto alcune domande, facendogli una sorta di intervista, per fare conoscere anche ai più giovani la vita di questo nostro confratello che dalle montagne del Trentino è giunto a spendere tanti anni in Africa, sempre tra le montagne, precisamente tra gli altipiani del distretto di Kisii.
Ecco il testo dell’intervista.
- Avi, dove sei nato?
- Sono nato il 4 agosto 1934 in un piccolo villaggio (Vigo Pine’) del comune di Baselga di Piné, in provincia di Trento.
- Quanti eravate in famiglia?
- La mia famiglia era composta di 4 figli. Prima una sorella, poi un fratello che è morto all’età di 60 anni. Un secondo fratello era un Religioso Camilliano (Fratello) morto all’età di 30 anni, in seguito ad un’operazione.
- Qual era il suo nome?
- Fratel Avi Lino. Poi l’ultimo della famiglia, che sono io.
- Qual era l’attività del papà e della mamma?
- Il papà era un falegname come S. Giuseppe. Però in seguito alle ferite riportate nella guerra del 1915-18 fu stato costretto a letto per diversi anni. Io l’ho conosciuto all’età di 6 anni all’ospedale di Trento, dove è morto. La mamma era una casalinga molto dedita alle pratiche di pietà, alla famiglia ed alla carità. A detta dei paesani, era la benefattrice di diverse famiglie.
- Come è nata la tua la tua vocazione? Quando sei entrato in seminario’
- Come tutti i ragazzi del mio tempo ero un chierichetto e mi piaceva servire la Messa. A scuola, una maestra – cugina del Camilliano Padre Pietro Bolech, grande benefattore di Tabaka – si interessava anche della vocazione degli scolari. Eravamo in tre che volevano entrare in seminario. Un giorno ci recammo dal parroco per esporre la nostra intenzione di diventare sacerdoti. Egli ci suggerì di entrare nella congregazione dei Padri Cavanis (una Congregazione Religiosa fondata a Venezia) a cui appartenevano vari Sacerdoti da un paese molto vicino al mio. Io dissi che volevo entrare dai Camilliani perché avevo mio fratello Lino con i Camilliani. Al che’ il parroco mi disse: Ah, sì. Allora dovrai occuparti dei malati, perché i Camilliani si prendono cura dei malati. Subito io risposi: No!, se è così io non ci vado. E mi sono messo a piangere. Quando mio fratello – che era in vacanza – seppe la cosa, mi disse: tu lascia pure che gli altri vadano dai Cavanis, però tu verrai qui con me dai Camilliani. Felice conclusione!
- In quale casa dei Camilliani sei entrato?
- Sono entrato a Villa Visconta (comune di Besana in Brianza, Milano).
- In che anno?
- Sono entrato nel dopo-guerra, ottobre 1945. All’inizio sono rimasto un po’ disorientato perché al mio paese vigeva il sistema (austriaco) di un solo maestro/a, che si dedicava a 5 classi contemporaneamente. Però non è che in quella scuola multi-classe del mio paesello (200-220 abitanti) l’istruzione fosse proprio carente per quel tempo, anzi… si parlava già di radiazioni X, trasmissioni radio (benché io scrivessi “l’aradio”), la geografia era in auge, la storia poi…. (se avessimo voluto, avremmo saputo come costruirci delle statue in bronzo…).
- Quando e dove sei stato ordinato sacerdote?
- La mia ordinazione è avvenuta il 21 giugno 1959 a Mottinello Nuovo (Vicenza), dove a quei tempi noi Camilliani frequentavamo i corsi di Teologia, da Mons. Girolamo Bortignon vescovo di Padova.
- In quanti eravate?
- Eravamo una classe numerosa: siamo stati ordinati in 10. Ora siamo rimasti solo in 3.
- Come è nata la tua vocazione missionaria?
- In seminario sono sempre stato membro del “gruppo missioni”; nel quarto anno di teologia ero anche il segretario. Non era passato molto tempo da quando i Camilliani della nostra Provincia Lombardo-Veneta avevano aperto una Missione in Cina (nel 1946). Padre Antonio Crotti nelle sue visite in Italia non mancava di infervoraci al riguardo.
- Avi, tu sei anche medico. Quando hai fatto i tuoi studi di medicina?
- Dopo l’ordinazione sono stato assegnato alla Comunità’ di Padova come cappellano d’ospedale. Era successo che Padre Antonelli, medico missionario a Taiwan, non stava fisicamente bene ed aveva chiesto al Provinciale di avviare qualche altro Confratello agli studi in medicina per sostituirlo. Il Padre Provinciale di allora, Padre Fontana, mi chiese se me la sentissi di studiare medicina per prendere poi il posto di Padre Antonelli. Gli chiesi tre giorni per pensarci su, poi mi misi a disposizione. Tra l’altro c’erano stati dei precedenti non troppo incoraggianti: di giovani Sacerdoti Camilliani che avevano da poco studiato medicina, ben tutti e tre alla fine degli studi avevano lasciato l’Ordine per abbracciare la vita secolare.
- Quanti anni di studio hai dovuto fare?
- Sei anni, all’Università di Padova, dal 1959 al 1965. Quindi, dopo sei mesi di preparazione personale, gli esami di Stato a Torino. Obbedendo poi agli ordini di Padre Crotti, sono partito subito per Taiwan (che allora si chiamava Isola di Formosa). Quanti anni hai trascorso a Taiwan?
- In tutto una ventina d’anni. Ho ben presto incontrato Dr. Janez, un laico missionario proveniente dalla Jugoslavia, un chirurgo molto bravo ma anche molto esigente, il quale mi suggerì’ di assistere alle sue operazioni per qualche anno (furono 4 anni e mezzo), ma poi di andare in qualche altro Ospedale “per farmi le ossa ed essere indipendente”, per poi ritornare di nuovo a Taiwan. Sono andato in Italia per un periodo di un anno e mezzo. A Verona ho incontrato Padre Adolfo Serripierri, anche lui medico missionario che stava facendo il tirocinio di pediatria all’ospedale di S. Bonifacio di Verona, egli mi introdusse al Primario chirurgo di quell’Ospedale e fui accettato come secondo assistente nel reparto di chirurgia perché il medico titolare era assente per un corso di specializzazione. Dopo sei mesi, al ritorno del titolare, fui accettato nel reparto di ortopedia dove non avevano ancora un assistente. Sotto la direzione del primario nel reparto di chirurgia cominciai ad eseguire come principale i miei primi interventi, anche piuttosto impegnativi. Con l’Aiuto chirurgo di allora, Dr. Luigi Benini, diventai presto amico, ed in seguito egli è venuto molte volte a farmi visita a Tabaka (come è in questo momento) prestandosi molto volentieri ad operare e facendo sincera amicizia con il Personale.
- Poi sei tornato a Taiwan?
- Sì, sono tornato a Taiwan nel 1972, e come prima cosa mi sono messo a studiare la lingua cinese. Sono stato destinato alla Comunità’ di Makung, nelle Isole Pescadores, (un Arcipelago di una sessantina di Isole situate tra Taiwan e Hong Kong), in un nostro ospedale di 70 letti. Ero spesso l’unico medico. Ho eseguito parecchie operazioni anche molto impegnative, facendomi aiutare da un infermiere. Nel 1976 ricevo una telefonata dal Superiore Provinciale P. Vezzani il quale mi dice che in Africa, precisamente a Tabaka, c’è bisogno urgente – solo per un limitato periodo di tempo – di un medico-chirurgo perché il medico residente stava per lasciare al termine del suo contratto, ed al nostro Gruppo di Camilliani che sarebbe subentrato era venuto a mancare il Dottore. Io risposi che sarei andato a Tabaka a due condizioni: a) che non sarei stato l’unico medico in quell’ospedale ma chiedevo di cercare almeno un altro Medico “vaccinato” per l’Africa; b) che non chiudessero l’ospedale (come avevano deciso di fare) in modo che il Personale rimanesse al proprio posto di lavoro. Il Provinciale mi assicurò’ che avrebbe rispettato le mie condizioni. Fu di parola!
- Allora hai lasciato Taiwan e sei andato temporaneamente a Tabaka a salvare una situazione di criticità?
- Proprio così. Sono arrivato in Kenya nel luglio 1976. All’aeroporto ad accogliermi c’era il Padre Rino Meneghello che aveva già procurato per me il Visto d’entrata. Qualche tempo prima mi avevano preceduto Padre Spagnolo, Fratel Fabio e Fratel Albano che si trovavano a Nairobi per migliorare il loro inglese e studiare le malattie tropicali. Un mese più tardi ci siamo ritrovati tutti assieme a Tabaka (arrivarono nel frattempo tre Suore Ministre degli Infermi) e con settembre abbiamo iniziato ufficialmente la gestione “camilliana” dell’ospedale.
- Io sono arrivato in Kenya nel gennaio 1984 ma non ti ho trovato. Dove eri?
- Dopo dieci mesi di intenso lavoro (nel periodo si sono affiancati i dottori Cuneo e Invernizzi; pensa che i malati normalmente ricoverati passarono da 40 a 130!), sono ritornato alle Pescadores (maggio 1977). Dopo 9 anni (1986) a Tabaka stessa situazione riguardo i Medici; quindi nuova richiesta del Provinciale per una mia presenza “emergency”. Sono ritornato a Tabaka, e vi sono rimasto fino ad oggi!
- Senti P. Avi: ripercorrere, anche in forma sintetica, questi 32 anni di attività missionaria in Africa non ci è possibile a causa di limiti di tempo. Ti chiedo semplicemente: qual è il ricordo o l’esperienza migliore che vuoi far conoscere alle giovani leve?
- Di ricordi ce ne sarebbero tanti. Ricordo un intervento molto difficile, in cui io ho fatto il meglio che ho potuto ed alla fine, essendo la situazione ancora critica, ho detto: S. Camillo pensaci tu! E tutto si risolse nel miglior modo. Avrei da ricordare parecchi successi, ma… A conferma di ciò talvolta trovo delle persone che mi fermano per strada, anche per le vie di Nairobi, e mi dicono: “Oh, P. Avi! Non ti ricordi di me? Mi hai operato a Tabaka tanti anni fa. Grazie per avermi dato la possibilità di continuare a vivere!”. E’ bello e soddisfacente curare le persone non per interesse, ma semplicemente perché ne hanno bisogno.
- Hai il ricordo di qualche esperienza negativa, che vorresti assolutamente dimenticare?
- In campo medico non penso di averne. Non sempre sono riuscito a riportare i pazienti in condizioni migliori, ma questo è dipeso dal fatto che arrivavano in pronto soccorso troppo tardi, in situazioni estreme. Ricordo invece che ho avuto modo di incontrare qualche episodio di dubbio comportamento, di ipocrisia bella e buona, anche se velata. Persone che in mia presenza si comportarono riconoscenti, ma che poi criticarono apertamente l’ospedale e la sua gestione. A questo proposito mi viene in mente una frase recente pronunciata da Papa Francesco: meglio un non-credente che un credente ipocrita!!
- Qual è secondo te il fiore all’occhiello dell’ospedale di Tabaka?
- Non dico qual è il fiore all’occhiello dell’ospedale di Tabaka, ma quello che deve essere il fiore all’occhiello, e cioè l’unione tra di noi, la nostra testimonianza umana e spirituale. Se la gente vede che noi lavoriamo onestamente e con profondo spirito religioso, allora ci stimerà e ci seguirà. Ciascuno di noi deve cercare di essere più convinto, più osservante, “personalmente e comunitariamente più radicale”. Dobbiamo fare risaltare il fondamento religioso nel nostro lavoro. Impariamo anche da altre “Fedi religiose e movimenti altruistici” a vivere la nostra Vocazione Camilliana: non vergogniamoci del nostro essere cristiani consacrati!
- Avi, cosa vorresti dire a mo’ di conclusione di questa nostra conversazione? Qual è l’eredità che vuoi lasciare ai Camilliani del Kenya ora che lasci questo Paese?
- Amare sinceramente e attivamente Dio e la Chiesa, amare i malati ed i Confratelli. Cercare di formare una famiglia nella quale ci si aiuta senza nascondersi niente. Esperienze negative ce ne sono e ce ne saranno sempre, però bisogna parlarne con sincerità ed amore vicendevole. Bisogna vivere la propria fede e consacrazione con onestà e fedeltà, tanto più ora che la Delegazione si sta avviando a diventare Vice-provincia. Dobbiamo essere e dimostrarlo: “sono contento di essermi consacrato a Dio ed al prossimo nella Vita Religiosa Camilliana!”.
Grazie, P. Avi, per le preziose informazioni che ci hai trasmesso su questa tua lunga esperienza missionaria e di vita. Tenterò di riassumere quanto hai detto e metterlo per iscritto per dar modo a tante altre persone di venirne a conoscenza.
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