GALLERIA FOTOGRAFICA DEL BEATO ENRICO REBUSCHINI
Tutto di Dio nel quotidiano
Enrico Rebuschini nacque a Gravedona (Como) il 28 aprile 1860, secondo di cinque figli in una famiglia della buona borghesia lombarda.
Sui diciott’anni, Enrico, pure gratificato dal successo negli studi, non era un ragazzo sereno e attraversava momenti prolungati di tristezza. Alle prospettive mistiche si univano ansie spirituali. Lui sentiva il richiamo alla vita religiosa, ma era un discorso che al papà dava sui nervi, perché aveva altre mire per il suo Enrico.
Seguirono tentativi di sistemazioni diverse, nelle quali, pure cercando di impegnarsi, di fatto si trovava a disagio perché non aveva scoperta la sua strada e riemergeva il desiderio verso una donazione totale. Dovrà convincersi anche il padre, che alla fine permette al figlio, già ventiquattrenne, di entrare nel seminario di Como. Date le sue qualità, viene inviato al Collegio Lombardo di Roma per frequentare gli studi teologici all’Università Gregoriana.
Riesce lodevolmente negli studi, e stimato dai superiori, eppure Enrico viene ripreso da una crisi più grave di depressione e deve ritornare in famiglia. Si sentiva incerto, diffidava di sé, era anche inceppato nella parola. Ricoverato per un certo periodo in una casa di cura, scriverà dopo anni: “Là Dio operò la mia salute con darmi confidenza nella sua infinita bontà e misericordia”.
Il sofferto ricupero viene attribuito dal Rebuschini all’intervento liberante di Dio e di Maria santissima. Ci saranno in seguito delle ricadute, sempre concomitanti con uno stato di affaticamento, ma meno gravi e più brevi. Come per San Camillo la piaga ulcerosa ê stata la via che ho ha condotto agli ammalati, così per il nostro Enrico la crisi lo aiuterà a sensibilizzarsi verso i malati e a orientarsi verso la vocazione camilliana.
Ripreso l’equilibrio psicologico, Enrico si impegna spiritualmente e riprende l’abitudine di visitare i bisognosi, abbinando l’erogazione di sussidi al supporto morale e religioso.
Apprezzando tate sensibilità, il suo confessore lo orienta verso i Camilliani, l’istituto religioso dedicato all’assistenza dei malati. Sarà pregando davanti al quadro di S. Camillo de Lellis, nella chiesa parrocchiale in Como di S. Eusebio, che Enrico, come confidò poi a suo cugino, ebbe come una folgorazione che gli illuminò la strada. II santo è ritratto davanti al Crocifisso, che staccando le braccia dalla croce gli dice: “Continua, l’opera non è tua, ma mia”. Enrico ritiene rivolta a sé quell’esortazione e, a 27 anni, decide di presentarsi al noviziato dei Camilliani a Verona.
Con particolare dispensa, ancora durante il biennio di noviziato viene ordinato sacerdote dal Vescovo di Mantova, mons. Giuseppe Sarto (il futuro papa San Pio X), il 14 aprile 1889. Nella festa dell’Immacolata 1891 emette la professione religiosa definitiva.
Per un decennio svolge il suo ministero a Verona, dapprima come vicemaestro e insegnante dei novizi; poi si prodiga come assistente spirituale agli infermi negli ospedali Militare (1890-95) e Civile (1896-99) della città.
Il 1 maggio 1899 p. Enrico arriva a Cremona, nella Casa di cura S. Camillo, dove rimarrà fino alla morte. Per il suo spirito di servizio ai confratelli viene confermato per undici anni superiore della comunità e per trentaquattro anni amministratore-economo.
Quarant’anni di vita e di operosità, in cui senza far rumore, ma con l’eloquenza dell’esempio e della bontà, s’e guadagnato la stima e l’affetto di tutta la città e il soprannome popolare di “Padrino santo”.
Il 23 aprile 1938, dopo aver celebrato presso un malato grave, ritorna a casa con un forte raffreddore, cui non da importanza. Due giorni dopo è a letto con broncopolmonite. L’8 maggio chiede l’Olio Santo. Il 10 rende l’anima a Dio. Aveva 78 anni.
Morì santamente il 10 maggio del 1938.
Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato il 4 maggio 1997. Il suo corpo è custodito nella cappella della Casa di cura San Camillo a Cremona. La Chiesa celebra la sua memoria liturgica il 10 maggio.
La spiritualità del Beato Enrico La santità “feriale”
Richiamando le figure dei beati e dei santi, si esaltano soprattutto le opere e la dottrina, quasi costituiscano l’aspetto principale della santità. Ma essi non sono diventati santi per queste manifestazioni esterne.
Il nostro Beato ci svela il segreto della santità “feriale”, ossia della santità vissuta nella quotidianità dell’esistenza. Lo scrittore Alessandro Pronzato ha così felicemente sintetizzato il suo identikit: “Uno come noi eppure tanto diverso da noi“. Ossia non ha compiuto azioni straordinarie, ma ha vissuto con straordinaria spiritualità la vita di ogni giorno.
Era un religioso mite, umile, silenzioso, sempre disponibile ad aiutare i confratelli, i malati, i poveri, anche quando poteva ben sapere che qualcuno abusava della sua bontà.
“Ovunque è passato — ricorda mons. Giulio Nicolini, vescovo di Cremona —, il beato Enrico ha lasciato il ricordo di una vita religiosa esemplare; una vita vissuta nel silenzio, nella preghiera, nell’umiltà e nella carità, in una parola nella santità quotidiana, concreta, reale, che può essere imitata e praticata da tutti coloro che vogliono impegnarsi nel servizio generoso e incondizionato a Dio e al prossimo, in particolare dei bisognosi e dei malati”.
È stato l’uomo della preghiera e del servizio.
La donazione ai malati La maturazione spirituale del nostro Beato è iniziata nella sofferenza per le deprimenti crisi depressive. Anche dopo il sacerdozio ebbe un’altra prova, pare l’ultima, di esagerato senso di colpa. La depressione può rinchiudere la persona in se stessa e provocare comportamenti rigidi e difensivi. Enrico ha valorizzato la prova con umiltà e fiducia in Dio, trasformando il lato debole della sua personalità in particolare sensibilità verso coloro che soffrono e delicata comprensione nel ministero della confessione. Riuscì a realizzare un comportamento sereno e una capacità di donazione straordinaria.
Nei mesi che precedettero l’entrata nell’Ordine dei Camilliani, lasciò scritto nel diario: “Offro per il mio prossimo tutto me stesso e la mia vita”. E fu fedele a questa donazione, particolarmente verso i malati, donazione che partiva da una intensa vita di comunione con Dio.
Nel servizio ai malati applicava la raccomandazione di San Camillo: “Servire i malati come fa una madre con il suo unico figlio infermo”. Sua caratteristica era il tratto delicato, riguardoso e caritatevole verso tutti. Sempre di umore uguale, sereno, gentile e premuroso.
Per quelli che erano lontani da Dio, faceva pregare e pregava insistentemente lui stesso in cappella. Più volte fu visto sostare in orazione prima di entrare in una stanza dove c’era un malato allergico ad ogni richiamo religioso. Poi, timidamente, si affacciava rivolgendo poche parole, ma per lui parlava il volto, lo sguardo che riflettevano spiritualità convinta e sensibilità fraterna e colpivano salutarmente.
Un simile equilibrio, arricchito da una capacità di relazione autentica, fatta di sensibilità, manifesta la maturazione spirituale.
Sulle orme del fondatore, San Camillo, evidenziava Giovanni Paolo II ai pellegrini accorsi a per la beatificazione del Rebuschini, “egli ha testimoniato la carità misericordiosa, esercitandola in tutti gli ambiti in cui ha operato“. Il suo saldo proposito di “consumare il proprio essere per dare Dio al prossimo, vedendo in esso il volto stesso del Signore”, lo impegnò in un arduo cammino ascetico e mistico, caratterizzato da un’intensa vita di preghiera, da un amore straordinario per l’Eucaristia e dall’incessante dedizione per gli ammalati e i sofferenti.
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