In copertina Munch La bambina malata (1885 – 1886)
Sappiamo bene come la cultura in cui siamo immersi operi una rimozione della morte dalla scena sociale: la morte oggi è de-socializzata, ridotta a fenomeno individuale, ed è nascosta, celata, strappata ai luoghi del vivere (la propria casa) e relegata, il più delle volte, a quegli ambienti asettici che sono gli ospedali: oggi si muore in modo certamente più igienico di un tempo, ma anche in una maggiore solitudine.
La rimozione della morte è fenomeno constatabile nella paura della stessa parola “morte”, spesso sostituita da quei pietosi e illusori camuffamenti che sono gli eufemismi: oggi non si muore, ma si scompare, si viene a mancare all’affetto dei propri cari, si passa a miglior vita… La repulsione di fronte alla salma, l’allontanamento dei bambini dalla visione di un morto, la riduzione della malattia mortale a problema tecnico affidato a personale specializzato, il carattere burocratico delle pratiche funerarie, sono ulteriori manifestazioni di questo fenomeno che relega la morte nella non-vita, la allontana dalla società rendendola oscena (nel senso etimologico di escluderla dalla “scena” del vivere).
Eppure la morte è parte integrante e momento culminante dell’esistenza. Ridare umanità e dignità al morire così che la morte possa essere vissuta come un atto umano che non solo pone fine alla vita, ma che la porta anche a compimento è dovere urgente per una cultura che voglia essere autenticamente rispettosa dell’umano. Questa rimozione della morte spiega anche perché si sia smarrito a livello sociale e familiare il valore dell’accompagnamento del morente. In verità, il tempo che precede la morte è estremamente prezioso: è occasione per il malato di fare un bilancio della propria vita e di riaffermare le opzioni che hanno guidato la sua esistenza; è momento in cui egli manifesta il bisogno di riconciliarsi con il proprio passato (con sé e con le persone con cui è in tensione o in conflitto) per potersi congedare serenamente dalla vita; è tempo di sistemare affari e situazioni economiche o di lavoro per non lasciare pendenze; è tempo necessario per rivedere le persone care e dire loro” addio” …
Stare accanto a un malato terminale significa stare accanto a chi sta vivendo un momento cruciale dell’ esistenza: non dovremmo neppure parlare di “morenti”, ma di persone che vivono gli ultimi giorni o settimane della loro vita. E chi vive questo accompagnamento può sperimentare come chi sta per morire possa insegnare molto a chi resta in vita: il confronto con la morte dell’altro ci rinvia subito a ciò che è essenziale e ‘Centrale nell’ esistenza. Il malato terminale conosce certamente dolore fisico, ma anche angoscia, svalutazione di sé, smarrimento spirituale, sensi di colpa: è essenziale che egli possa trovare uno spazio umano che gli consenta di esprimere e dar voce a ciò che prova; se egli viene curato a casa propria, questo è certamente più facile. Valorizzando i gesti semplici della vita quotidiana e offrendogli la possibilità di una conversazione vera, in cui egli può esprimere se stesso, il malato può sentire accanto a sé quella presenza amorosa che è terapeutica non meno delle cure farmacologiche e di cui egli ha assolutamente bisogno.
Il familiare o l’accompagnatore che è accanto al malato cercherà di mettere in atto una forma di comunicazione tale da poterlo raggiungere: la parola, certo, ma quando questo non è possibile, ecco che lo sguardo, il sorriso, le lacrime, il toccare con delicatezza e tenerezza, il tenere la mano del malato, diventano vie percorribili. Infatti, c’è una voce che tocca, un tono di voce che carezza, e c’è una mano che parla, un gesto che sussurra. Nei momenti di disperazione e angoscia può avvenire che il moribondo, come un bambino piccolo, chiami la madre: allora, il gesto di “cullare” il malato, di adagiarlo sul proprio petto e abbracciarlo con tenerezza potrebbe dargli la sicurezza e il senso di protezione che lo rasserenano. L’accompagnatore non ha tanto da fare: deve solo comunicare la propria presenza amorosa. È questa vicinanza che strappa il malato alla più penosa delle sensazioni: quella di essere abbandonato, escluso dal mondo dei vivi. Del resto, opportunamente interpretata ascoltando la sofferenza da cui scaturisce, la domanda di “farla finita” che il malato a volte formula, nella maggior parte dei casi non è affatto una richiesta di “eutanasia”, quanto una supplica con cui il malato chiede alleviamento del dolore e di non essere lasciato nella solitudine. Egli chiede se interessa ancora ai vivi, se è ancora degno di amore, se può ancora considerarsi tra gli esseri umani. Qui si colloca l’importante compito dell’accompagnatore di confermare il malato nella sua dignità e nella sua preziosità, anche se la malattia lo paralizza o lo sfigura rendendolo irriconoscibile a se stesso.
Questo il messaggio che l’accompagnatore dà al malato: tu sei e resti un essere umano, nella pienezza della tua dignità. Lo stesso respiro irregolare del morente dichiara che, nella sua angoscia, egli cerca una presenza personale che stia insieme a lui e lo tranquillizzi. In questa tranquillità, il malato si sentirà anche autorizzato, quando sente che la sua ora è venuta, di lasciare i legami con la vita e oltrepassare la soglia della morte. E anche quando il malato appare assente, sembra non capire, non comunicare e non rispondere, occorre perseverare nel restargli accanto: se lo si lasciasse e ci si astenesse dallo stargli vicino e dal continuare ‘a parlargli o a comunicare con lui in modo non verbale, lo si considererebbe già morto e lo si abbandonerebbe alla morte.
Chi è accanto al malato terminale è posto a confronto con la propria sofferenza e vulnerabilità, e con le emozioni che la morte dell’altro suscita in lui: egli deve riconoscere ma anche governare e tenere a distanza tutto ciò, perché la propria sofferenza non si sovrapponga a quella del malato impedendo all’ accompagnatore di ascoltare il dolore e i bisogni del malato stesso. È certamente faticoso e pesante accompagnare un morente, ma è un atto di grande umanità che può arricchire profondamente chi lo compie. In un contesto culturale che esalta il piacere, l’efficacia, la bellezza patinata, il successo, è difficile cogliere il senso e il valore degli ultimi istanti di un uomo agonizzante. Anzi, lo spettacolo della fragilità umana, di un corpo privo di forze, scosso dai rantoli può essere sentito terrificante! Ma quelli sono anche gli ultimi momenti, gli ultimi gesti, gli ultimi sguardi, magari gli ultimi sorrisi di una persona con cui abbiamo condiviso un percorso di vita. E questo è di importanza straordinaria. Il cristiano poi, potrebbe affrontare questo compito autorizzandosi a una parafrasi certamente legittima di Matteo 25,35-36: “Ero morente, e mi siete stati accanto”.C
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