Il paesaggio violato

Nella ricorrenza della giornata mondiale della Terra, 22 aprile, ho scelto di pubblicare l’articolo del religioso camilliano p. Mario Bizzotto (Rossano Veneto, 26 dicembre 1934 – Verona, 16 gennaio 2020) dal quale emerge un accorato e malinconico appello di ciò che tutti noi abbiamo perso e che stiamo ancora perdendo in un mondo violentato da un progresso guidato dal solo scopo di lucro.

La mia generazione e quelle precedenti hanno la fortuna di poter ricordare il mondo illustrato dal padre Bizzotto con i colori e i profumi che scandivano il susseguirsi delle stagioni e contemporaneamente però abbiamo la tristezza di poter pensare che tutto ciò non esiste più e che le generazioni future sono state private anche della possibilità di un ricordo di così tanta bellezza. Siamo noi, quindi, a doverci indignare perché siamo noi i depositari mnemonici di questa bellezza e dobbiamo fare in modo che venga trasmessa alle generazioni future in maniera tale che possano avere l’idea del bello e di ciò che di valore esiste nel mondo al di là del fattore puramente economico in maniera tale che sappiano che cosa devono preservare e tutelare in quanto, come l’autore stesso dice citando Dostoewskij, sarà la bellezza che salverà il mondo.

 

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I rari momenti in cui si scopre che le cose sono così come devono essere, ossia in armonia con l’uomo, ci offrono istanti di felicità e ci fanno sperimentare anche la bellezza. Chi è sensibile ad ogni cosa bella, sentirà vergogna per ogni scempio che devasta il creato.

 

La distruzione del territorio sempre più aggressiva è uno degli insulti più offensivi perpetrati contro la natura. Terreni tra i più fertili vengono ogni anno invasi dal cemento. Una volta tolti alla coltivazione, si avvia un processo irreversibile. Sono distrutti per sempre. Se non si pone un freno a questa invadenza selvaggia dell’edilizia, si avranno delle conseguenze con danni irreparabili.

Oggi la città non ha più confini. Le nostre città antiche erano ben delimitate con cinte di mura, che le tenevano chiaramente distinte dalla campagna. Ora dilagano come un contagio. Sono collegate con abitazioni ad altri centri. Il paesaggio assume il volto d’un mondo uniforme, cui manca la campagna. Ci sono ancora zone di coltivazione, ma sono costellate di case, attraversate da tralicci, interrotte da strade. Il senso della campagna e scomparso.

Sono state scattate nottetempo dall’alto delle foto sulla pianura che si estende da nord-ovest al nord-est. Il paesaggio, che si prospetta dinnanzi, è un ininterrotto panorama di luci che fa pensare alla presenza di un’enorme città. Dov’è la campagna? Dove le distese coltivate? L’immagine è uno specchio del degrado ecologico.

Denuncia una mancanza di leggi e di ordine nel rispetto della natura. Non ci si può più permettere lo sciupio di terreni vegetali. C’è un confine che va rispettato, in caso contrario è la natura stessa che si ritorce contro e ci ridà quello che ad essa si è dato: inquinamento di aria, acqua, fiumi, torrenti, laghi, cui sono collegati cambiamenti climatici.

La spinta verso la campagna

           Il cittadino aspetta i giorni festivi per evadere dalla città, dalle sue complicazioni di costumi, etichette, mode, affari, incontri e obbligazioni. Finalmente può cambiare ritmo di vita e dire: andiamo in campagna! Un proposito più che legittimo. Esprime l’aspirazione d’una maggiore libertà. Ma se la campagna non esiste, non fa che girare su se stessi. Sostanzialmente si è ancora in città. Ci si illude di emigrare in altri luoghi più distensivi, più pacifici, ci si illude di entrare in una vita diversa più semplice e più umana. Non è proprio così. Nella “nostra campagna” ritroviamo ancora la città con gli stessi gusti, gli stessi cibi, gli stessi costumi, gli stessi strumenti della tecnica: televisione, radio, auto, moto con i relativi rumori assordanti. No. Da tempo la campagna è morta. Non è più il luogo della solitudine, del silenzio e della calma.

Si conservano ancora le feste paesane e le sagre. Sono celebrate con un’invasione di gente che non si conosce. Non hanno niente da spartire con le vere sagre, quelle che offrivano l’occasione di incontri con persone conosciute, permettevano di rivedersi, conversare e sentirsi comunità. Anche le sagre subiscono la sorte del degrado: assembramenti di gente sconosciuta, ristoranti gremiti, movimento di macchine e tanto fracasso. Il paese sta diventando una riedizione della città. Proprio come la città ha perso i suoi confini e con i confini ha smarrito parte delle sue tradizioni e della sua identità.

Alla campagna si è condotti da un bisogno di vita diverso: più autentico e umano. Vi si è attratti da molte aspettative, che non sempre sono appagate. Si cerca in essa quello che manca in raggruppamenti di forte densità demografica. Non si vuole imbattersi in vetrine e negozi che ostentano quello che non si ha e neppure si ha la possibilità di acquistare. Si è più che saturi di incontrare solo uomini indaffarati, persone che passano vicino ma hanno il volto lontano, assente. Una volta tanto si desidera anche vedere persone con le quali conversare. È piacevole incontrare anche animali, vedere piante e ammirarne la chioma. E quanto sarebbe rasserenante camminare in sentieri solitari che conciliano alla quiete dell’anima.

Il paesaggio manomesso

           Ho ancora impressa nella memoria una contrada montana, un gruppo di case collocate all’interno d’una cornice di cime. Quelle case erano ben situate e davano un’impressione di modestia e gusto agreste. Non esibivano niente di eccessivamente elegante. Erano costruzioni semplici ad un piano. Sui davanzali erano collocati vasi di gerani e ciclamini, che armonizzavano con l’ambiente.

Non facevamo esibizione di lusso. Sarebbe stato fuori posto. Tutto era semplice come doveva essere nel contesto in cui si trovavano. Non c’erano segni di quello sfarzo che certe ville in contrasto con l’austerità dell’ambiente montano ostentano, dando segno più di ricchezza che di buon gusto. Ci sono colori offensivi, serramenti di plastica, viali e aiuole troppo leziose. La natura vuole semplicità, rifiuta artefatti d’un lusso spudorato e offensivo. Finché la contrada non è aggredita da gru o da facoltosi proprietari ed è rispettata nel suo candore, finché si mantiene come era stata voluta da montanari puliti, poveri eppure pieni di dignità, sarà sempre un esempio gradevole allo sguardo del viandante, che si sente accolto e appagato nelle sue aspettative.

Il villaggio era raccolto. Manteneva ancora una netta separazione dalla campagna. Qui si aveva l’impressione di trovarsi in un ordine originario, non ancora contaminato dall’aggressione irriverente del denaro. Nei prati vicini si erigevano alcuni pagliai, che mostravano la mano solerte del coltivatore e nel contempo presentavano un quadro d’una tradizione plurisecolare.

Ritornandovi qualche anno più tardi ho provato una delusione pari alla gioia provata antecedentemente, quando nella contrada avevo scoperto l’accordo ideale tra uomo e natura. I pagliai erano scomparsi. Alcuni prati erano soppiantati da nuove case e altre erano in via di costruzione. L’innocenza del paesaggio originario era intaccata, il gruppo omogeneo di case non esisteva più. Le nuove abitazioni non si adattavano allo stile dell’epoca precedente. Con la scomparsa della vecchia borgata si condannava al tramonto un’epoca dalle linee misurate e rispettose della natura.

Le generazioni che verranno non avranno alcun presentimento di cosa volesse dire abitare in sintonia con la natura. Troveranno più congeniale alla loro mentalità fare sfoggio di ricchezza e comodità. Non sentiranno il bisogno di amare, oltre l’abitazione, anche l’ambiente.

L’esperienza del bello

           Nella contemplazione d’una natura pulita ci si imbatte nella prima e più vera esperienza del bello. Si è come sorpresi dall’incanto. Tutto dice: qui si deve far sosta, qui si respira la pace. Molti hanno parlato della bellezza osservando che essa è data da un’armonia di linee che sorprende e affascina. Certo non è solo questo, ma è quanto basta per spiegare a noi stessi la sensazione piacevole che proviamo a contatto con il volto originario del creato. Non è solo il bello che ci viene incontro. Ciò che è bello, è sempre unito a ciò che è sano e invita ad un impegno di custodia e fedeltà contro i possibili pericoli di guasti e inquinamenti.

Dostoewskij è autore d’un detto diventato logoro dall’uso eppure sempre vero: è la bellezza che salverà il mondo. Non salva solo il paesaggio, salva anche l’uomo. Ha bisogno però di trovare l’animo gentile capace di avvertire i messaggi d’un panorama: d’un tramonto, d’un prato in fiore, d’un laghetto alpino, d’una pianta rigogliosa. Chi si lascia sorprendere dall’appello della natura non avrà sempre soddisfazioni nelle cose che è costretto ad incontrare. Non potrà evitare una stretta al cuore ogni volta che vede una gru issata in mezzo ad un prato. Chi è sensibile ad ogni cosa bella, sentirà vergogna per ogni scempio che devasta l’ordine originario del creato. Se è vero che il bello salverà il mondo, è altrettanto vero che quanto è brutto e sporco lo distruggerà. Troverà giusto perciò rifiutarlo anche se utile come lo è un’industria o comodo come lo è un’antenna. Si tratta sempre di qualcosa che consuma, rovina e distrugge.

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