Assomigliano ad un ponte le beatitudini che incorniciano la liturgia della festa di tutti i Santi. Un ponte sospeso tra due abissi: tra il giorno in cui la Chiesa celebra il ricordo dei propri Santi e il giorno successivo nel quale la Chiesa commemora i propri defunti. Feste misteriose, con addosso il sospetto che i cristiani siano gente dello struggimento.
Feste in cui si piangono i morti come si piange sul latte versato; feste in cui si guardano ai santi con malcelata compostezza come per dire: “Si, ok, ma quelli mica erano normali, questi!”. Il Vangelo di oggi, invece, rischiara l’orizzonte. È come uno squarcio che s’apre nel mezzo di una sfuriata del cielo e permette di scorgere piccoli anticipi di luce e di speranza!
Eppure che senso ha dare del beato a chi oggi è uno scarto, all’uomo della periferia e dei cassonetti? «Beati (…) Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
Facile promettere orizzonti di felicità domani: è l’oggi quello che all’uomo fa spavento, lo fa tremare, gli stordisce persino il cuore. In Chiesa è anche bello sentirle risuonare queste parole: il problema è oltre quella porta della chiesa: laddove la storia chiama, grida, insulta. Smarrisce persino la voce nel chiedere aiuto.
Beati voi! Certi giorni anche il Cielo sembra irridere i rantoli di quaggiù. Parole strane quelle delle Beatitudini: le uniche parole dalle quali lasciarsi stordire persino i sensi per poi allenarli a gustare la storia per davvero, non per come sembra a noi.
Eccolo il senso spettacolare di questa simpaticissima coincidenza della liturgia. Chi sono i Santi? Sono quelle persone che hanno saputo leggere la storia con gli occhi di Dio. Persone – che non sono nate sante – che hanno accettato di lasciarsi guardare dal Cielo fino a riuscire a pensarsi come Dio li ha pensati: uomini perfettamente uomini. Così ricchi da avere se stessi in proprio potere, signori di se stessi, delle proprie passioni, fino ad essere capaci di perdonare se stessi e gli altri.
Armati di beatitudini, hanno guardato in faccia la storia e l’hanno attraversata. Non aggirata e nemmeno scansata. Scesi in strada consapevoli che ognuno ha l’avvenire che si merita: oggi scartati e domani beati.
I santi me l’immagino da sempre come uomini coi piedi ben piantati per terra, quasi infossati dentro le strade consunte della storia: «Nessuno prende la realtà sul serio come il santo perché in verità ogni fantasticheria, sulla sua strada irta di pericoli, inesorabilmente si vendicherebbe. Diventare santo significa per l’uomo reale staccarsi da sé, per entrare nel Dio reale» (Romano Guardini). La santità, dunque, è da intendersi e da viversi come il massimo del realismo più che come l’elogio della fantasia.
Cartesio un giorno scarabocchiò una delle frasi che l’hanno fatto amare al popolo dei pensatori: «Cogito ergo sum» (“Penso, dunque sono”). Karl Barth, teologo protestante, un giorno manomise quella scritta incastrandoci l’imprevisto di una semplice lettera. Fu l’apparizione del Mistero: «Cogitor ergo sum» (“Sono pensato, dunque sono”). E il santo è tutto qui: un lasciarsi pensare da Dio e vivere come da Lui pensato.
Forse per questo i Santi li abbiamo castigati nei capitelli: ci fa paura quell’immensa libertà d’essere riusciti a lasciarsi pensare per imparare ad essere, e ad essere ‘felici’.
I santi sono coloro che hanno scoperto il segreto della felicità! Ecco perché sono estremamente attuali, addirittura intramontabili, quindi immortali: perché la loro vita è l’unica risposta autentica al desiderio iscritto nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, in ogni tempo. Tutti vogliamo essere felici, sperimentare la beatitudine – per dirla in termini biblici. I santi ci indicano la via, testimoniando con la loro stessa esistenza che il nostro desiderio non è un’illusione destinata a essere frustrata perennemente, ma è una promessa innestata nell’intimo di ogni persona, e che ne rivela la verità più bella.
La felicità, infatti, è frutto della partecipazione alla vita di Dio. E partecipare della vita di Dio è sinonimo di santità. Perché solo Dio è santo. Solo Lui può decidere di condividere la sua santità con le sue creature. Solo in Dio, la Fonte della gioia, trova ristoro la nostra profondissima sete di beatitudine.
Mai come nelle beatitudini il Cielo e la terra manifestano l’incrocio del loro reciproco cercarsi. È proprio nell’incontro di desideri, o meglio del desiderio intimo, che abita il mistero della santità.
I poveri, gli afflitti, ma anche i miti e i misericordiosi, come i puri di cuore, sono uomini e donne che lasciano emergere dai marosi della propria interiorità il grido più profondo e originale: non più o non soltanto il bisogno di una risposta immediata, bensì il desiderio che Qualcuno sia presente per sempre in quella costitutiva necessità. I beati sono esseri desideranti, che hanno saputo disfarsi delle brame superficiali o degli aneliti distratti, e vanno all’essenziale: “di Te, mio Dio, ho infinito desiderio”.
Gli operatori di pace, gli affamati e assettati di giustizia, i perseguitati per il Suo nome sono coloro che di questo desiderio hanno fatto il motivo della lotta. Perché non si tratta di una propensione all’altro serena e tranquilla. La vita stessa genera lo scontro e la tensione con il limite che è personale, ma anche storico e relazionale. Il desiderio di vivere in Dio, di lasciarlo vivere in noi per divenire Sua trasparenza, di intessere la relazione vitalizzante con la Sua presenza non è automatico e immune da tentazioni. La santità è la scelta consapevole e fedele di intraprendere la battaglia contro ogni forza che allontana o – peggio ancora – deforma e camuffa il volto autentico dell’Amato. “Voglio conoscere Te, mio Dio, per conoscere me in Te”.
La beatitudine, la santità è contagiosa di suo. Chi ne è contagiato, o per lo meno scosso, se ne rende conto. All’interessato, invece, al beato e santo rimane il travaglio di continuare la lotta, e di sentirsi sempre un po’ più mancante: non di perfezionismo, ma della Sua presenza, che già e ora vorrebbe totale e perenne. Del santo, dunque, immancabilmente missionario dell’Amore, colpisce soprattutto la incontenibile nostalgia del Paradiso. Nostalgia che profuma di Cielo, qui e ora, quanto di più semplice e ordinario egli è chiamato a vivere.
Dio non solo è amore,
non è solo misericordia,
Dio è anche felicità.‘Felicità’ è anche il nome di Dio.
I Camilliani su Facebook
I Camilliani su Twitter
I Camilliani su Instagram