La scena centrale del vangelo di questa XXI domenica del tempo ordinario, ruota attorno ad una duplice domanda che Gesù pone ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?».
Gesù, riferiscono gli evangelisti, «non parlava alla gente se non con parabole» (Mt 13,34) e con domande. Gesù ha scelto queste due forme particolari di linguaggio perché esse strutturano un metodo di comunicazione generativo e coinvolgente, che non lascia passivi gli ascoltatori. Gesù, profondo conoscitore dell’animo umano, vuole i suoi discepoli come liberi pensatori e creativi poeti della vita: le risposte spesso ci appagano ma ci fanno stare fermi, le domande invece, ci obbligano a guardare avanti e ci fanno camminare.
Gesù interroga i suoi, quasi per un sondaggio d’opinione: La gente, chi dice che io sia?. La risposta della gente è univoca, bella e sbagliata insieme: Dicono che sei un profeta! Una creatura di fuoco e di luce, come Elia o il Battista; sei bocca di Dio e bocca dei poveri. Ma Gesù non è un uomo del passato, fosse pure il più grande di tutti i profeti: inoltre è molto semplice e a volte molto comodo, perché poco coinvolgente, confrontarsi con i grandi del passato, soprattutto perché sono tutti ‘morti’ e il rischio, o la tentazione, è quello di rinchiuderli nel prestigio di un museo, lontani dal flusso drammatico della vita.
A questo punto la domanda, arriva esplicita, diretta: Ma VOI, chi dite che io sia? Prima di tutto c’è un MA, una avversativa, quasi in opposizione a ciò che dice la gente. Gesù sembra provocare i suoi discepoli a non cedere alla fede ‘per sentito dire’, secondo i cliché del ‘si dice’, ‘si crede’, ‘si ama’, dove tutto è artificiosamente impersonale e dove è facile affidarsi agli stereotipi del pensiero comune, pensiero debole, perché incapace di affrontare la ricerca delle fonti, confrontandosi con l’oggetto stesso della ricerca, ossia ‘il Cristo il Figlio di Dio’.
Ma voi che siete con me da anni, voi amici che ho scelto a uno a uno, che cosa sono io per voi? In questa domanda è il cuore pulsante della fede: chi sono io per te? Gesù non cerca formule o parole, cerca relazioni (“io per te”). Non vuole definizioni ma coinvolgimento personale. La sua domanda assomiglia a quelle degli innamorati: quanto conto per te? Che importanza ho nella tua vita?
L’identità di una persona non si manifesta come una sostanza astratta e vaga che definisce nominalmente una cosa o una persona. L’identità non è un concetto psicologico per esprimere una indefinita natura soggettiva, in effetti poco consistente e totalmente autogestita. In Gesù – e quindi anche in noi – l’identità è relazione: nasce e vive in relazione, si forma e cresce in relazione, si definisce soltanto a partire e dentro una relazione. Ed è la relazione di figliolanza. Detto in parole semplici: c’è qualcuno che chiama Gesù per nome, e Gesù diviene se stesso rispondendo a quella voce che chiama. C’è un Dio che chiama un Figlio per nome, da sempre e per sempre. E Gesù, rispondendo, diviene colui che è, “il Figlio del Dio vivente”.
Ecco perché il nome più opportuno dell’identità è vocazione. Perché Gesù è il dialogo con chi lo chiama. Così anche Simon Pietro. Solo chi è in relazione con il Dio vivente può riconoscere la presenza di suo Figlio accanto a lui. E così Gesù ricorda a Simone la sua figliolanza umana – “figlio di Giona” – per chiamarlo a percepire più profondamente la vitale figliolanza divina. Gli cambia il nome, segno della vocazione, cioè dell’autentica identità di figlio amato da sempre e per sempre.
Gesù non ha bisogno della risposta di Pietro per avere informazioni o conferme, per sapere se è più bravo degli altri maestri, ma per sapere se Pietro è innamorato, se gli ha aperto il cuore. Cristo è vivo, solo se è vivo dentro di noi. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio. Cristo non è le mie parole, ma ciò che di Lui arde in me.
La risposta di Pietro è a due livelli: Tu sei il Cristo, l’Unto del Signore, il Messia, il Dio che agisce nella storia; e poi, ad un livello più intimo: Tu sei il figlio del Dio vivente.
Figlio nella Bibbia è un termine tecnico: è colui che fa ciò che il padre fa, che gli assomiglia in tutto, che ne prolunga la vita. Tu sei Figlio del Dio vivente, equivale a: Tu sei il Vivente. Sei grembo gravido di vita, fontana da cui la vita sgorga potente, inesauribile e illimitata, sorgente della vita. Se cerchiamo oltre le parole, se scendiamo al loro momento sorgivo, possiamo ancora ascoltare la dichiarazione d’amore di Pietro: tu sei la mia vita! Trovando te ho trovato la vita.
Pietro non ama i giri di parole, non usa il condizionale. “Tu sei il Cristo”: non è una risposta, è una confessione.
E nessuno di noi può confessare il Cristo se lo Spirito non glielo consente, non glielo ispira nell’intimo della propri vita. Uno Spirito – che è Signore – dai disegni imperscrutabili, dalle vie inaccessibili, come dice l’Apostolo Paolo ai cristiani di Roma. “Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli” (Rom 11,36). È solo lo Spirito che induce ad abbandonare le false prudenze, le timidezze, le circospezioni, l’ipocrisia, quella paura nel prendere le decisioni che realmente danno spessore e consistenza alla nostra storia.
E non è casuale che qui si innesti il discorso sull’autorità.
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, aveva già introdotto questo argomento. Settecento anni prima di Gesù, il re Ezechia, al quale evidentemente non piacevano i megalomani, sostituisce il sovrintendente del palazzo, cioè il maggiordomo, Sebna, con Eliakim, trasferendo a questi tutti i poteri.
Il potere aveva sedotto Sebna e la sua capacità decisionale, cosa piuttosto frequente anche ai giorni nostri, e questo funzionario reale, sfruttando la sua posizione di potere, viveva nell’ambizione più sfrenata. La sostituzione si rende dunque indispensabile e il nuovo sovrintendente sarà rivestito con tutti i segni del comando, la tunica e la cintura destinati a chi esercita l’autorità. Non solo, ma… “gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: / se egli apre, nessuno chiuderà; / se egli chiude, nessuno potrà aprire“ (Is 22,22). Pieni poteri, dunque.
Questo testo messianico viene richiamato da Gesù nel suo colloquio con Pietro. Anche a lui verranno date le chiavi del Regno, e potrà legare e sciogliere. Con una differenza, però, novità dei tempi nuovi che il Cristo ha inaugurato.
Autorità non significa dominio, seduzione, timore nei sottoposti, adulazione, privilegio personale…
L’autorità è il massimo servizio che possa essere esercitato; il dominio è il vero male di tutti i tempi; soprattutto quando l’autorità viene progressivamente con il dominio. Un dominio che spesso si esercita non solo nei confronti delle cose, ma soprattutto delle persone. Autorità non significa dire: “Io penso, decido per te: io ho la diritto del comando, tu il dovere dell’obbedienza”.
Gesù investe Pietro di un’autorità che non è sostituzione degli altri o prevaricazione ‘spirituale-morale’ sugli altri, ma accompagnamento, nell’esperienza dell’univa fede, nell’unico Signore Gesù.
Vale a questo proposito l’affermazione icastica attribuita a sant’Agostino, che meditando sul suo essere vescovo e sull’autorità connessa a questo ministero, afferma: “Per voi sono Vescovo; con voi sono cristiano”.
Gesù ha tracciato un nuovo percorso per i suoi discepoli: occorre seguirlo con pazienza, con discrezione, con umiltà. La stessa che Gesù suggerisce ai suoi discepoli.
Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.
Ma è proprio un segreto la fede? No, la fede non è un segreto, non è un segreto professare il Cristo. Ma questa professione più che con le parole avviene con i fatti. Non basta avere chiari i principi teologici fondamentali, occorre realizzarli nella praxis della nostra esistenza quotidiana. “Non chiunque mi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). La fede è discreta, va coltivata nel cuore e realizzata nella vita, non urlata nelle piazze.
Segno di grande libertà interiore questa fede che il Cristo ci chiede di professare. Per questo occorre impetrarla, pregarla incessantemente, con la radicata consapevolezza, che alla fine, solo “il tuo amore, Signore, è per sempre”, come ci ricorda il salmo. Affermazione orante che si può ben riferire all’esperienza di fede di Pietro … capace di confessare e di sconfessare il suo amore e la sua sequela per Gesù … ma a differenza di Pietro, così altalenante, Gesù conserva inalterato il suo amore per ogni uomo, “nella buona e nella cattiva sorte”, custodendo, anche nella nostra infedeltà e tradimento, il seme prezioso della nostra dignità di figli amati del Signore.
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