Relazione di Giovanni Terenghi agli aderenti alla Famiglia Camilliana Laica: tenuta a Mottinello (Vicenza) il 4 marzo 2000, Terza relazione del programma 1999/2000: “L’esperienza spirituale di Camillo de Lellis”.
La parola “croce”
Una condizione indispensabile per poter riflettere sul senso della croce nella nostra esperienza di credenti, è essere anzitutto consapevoli del significato teologico (cioè rivelato da Dio) che ha avuto questo evento.
Vista dalla parte di Dio, ci chiediamo, la croce di Gesù che cosa vuol dire? Nel NT ricorre una frase che ne sintetizza il significato: “sacrificio per la remissione dei peccati”. Analizziamola brevemente. Il termine “sacrificio” in primo luogo indica un gesto che veicola la comunione, abbattendo le divisioni. Paolo scrive:
“Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia”. (Ef 2,14-18)
Prima di indicare il dolore della passione, il termine “sacrificio” si rivela come la fonte della comunione con Dio e tra gli uomini. Questo appare soprattutto dal modo con cui Gesù vive la croce: la sua obbedienza e l’abbandono al Padre, come atteggiamento opposto alla ribellione orgogliosa dell’uomo peccatore. Il sacrificio della croce ci dice quindi che nel donarsi di Gesù, Dio si fa incontro nuovamente all’uomo per ricrearlo. Il senso della croce quindi dipende dal “come” Gesù la vive: cioè come un gesto fatto “per i peccatori”.
Sempre Paolo dice:
“Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. (Rm 5,7ss)
Si tratta dunque di un gesto fatto 1) gratuitamente, 2) per (in favore di) dei nemici, senza alcuna garanzia cioè, che questi diventeranno amici smettendo di essere nemici (Bonhoeffer, Sequela). La croce ci dice che Dio prende l’iniziativa di questo gesto paradossale e impensabile.
Ma chi sono i peccatori? Il “per noi” del testo di Paolo, ci dice che il peccato si riferisce a una situazione generale dell’uomo (il cosiddetto peccato originale), di ciascuno di noi, in quanto separati, ribelli, ingiusti, violenti, falsi…, in una parola “nemici di Dio”.
La croce di Gesù, ci dice che:
- l’uomo è in grado di peccare e, ciononostante, Dio decide di essere per lui, fino a dare la vita;
- “prima ancora di ciò che l’uomo fa o non fa, prima ancora degli atti che l’uomo compie non amando Dio ma allontanandosi da lui, Dio non può non incontrare l’uomo… se non misericordiosamente”;
- è “per la remissione dei peccati”. È il gesto di Dio che condona e che mentre perdona ricrea l’uomo rimettendo in moto la sua libertà. Uno dei termini usati dal NT è “redenzione”, che significa infatti liberazione;
- la croce ci dice che Dio vuol salvare l’uomo ridonandogli la possibilità di essere libero, con l’offerta, nel proprio Figlio, della verità, dell’autenticità dell’umano, che è la vera condizione della libertà.
La sequela della croce
La croce di Cristo dunque rivela un messaggio di speranza: il gesto di Gesù è un sacrificio per la libertà dell’uomo (la croce come causa della salvezza). Ma proprio perché chiamato ad entrare in modo libero e responsabile nel dialogo con Dio riaperto dal sacrificio del crocifisso, questa “parola” attende una risposta. Qual è – ci chiediamo – il senso della croce dalla prospettiva dell’uomo interpellato dalla “parola della croce”?
Facendo riferimento al testo della “Formula di vita” (1599), cercheremo di capire il significato del primo e principale “sacrificio” richiesto al fedele: quello cioè di diventare discepolo del crocifisso; la sequela della croce in quanto via della salvezza.
Riprendendo i diversi detti evangelici della sequela, la “Formula di vita” pone chiaramente un parallelo tra il discepolato e la condivisione della croce.
Il discepolo è chiamato “a esser morto… a se stesso… et vivere solamente a Gesù Crocifisso”; a dire di no a se stessi per dire di sì a Dio al modo di Gesù: “si dia tutto al compiacimento della volontà de Dio… abbandonando totalmente la propria volontà”.
Il fine cui si mira è inequivocabilmente il costante superamento di se stessi in Dio (si pensi al detto evangelico: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà”, Lc 9,24), come è apparso nella croce di Gesù: nell’abbandono fiducioso al Padre e nella donazione ai fratelli. È chiaro che questa sequela si compie poi di fatto nelle situazioni quotidiane: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23). Ma, ci chiediamo, che significa “portare ogni giorno la croce”?
In sostanza si tratta di condividere le scelte fondamentali di Gesù, o per dirla con Paolo, “avere in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5): decidere cioè che il proprio modo di essere, pensare, sentire, desiderare, volere e agire, sarà quello creduto, sentito, desiderato, voluto e vissuto da Gesù. È la condivisione del suo stile, il voler essere con lui e come lui, qualsiasi sia il prezzo da pagare: questo il senso fondamentale della croce e della vita del discepolo.
Ma per giungere a questo c’è una via obbligata: si deve “essere morti a se stessi”, o come dice il vangelo “rinnegare se stessi”.
Anzitutto quel “se stesso” da rinnegare: a che cosa si riferisce? È la parte di noi (tanto se ne siamo consapevoli o tanto più se non lo siamo) che resiste a Dio, che rimane attaccata e tenacemente cerca se stessa, che non vuol diventare credente; quello che viene richiesto infatti è che tutto di noi stessi (corpo, mente, affettività, volontà, intelligenza e libertà) sia ricondotto al senso delle cose e della vita rivelato dalla croce di Gesù. Non si tratta di altro che del comandamento di amare Dio “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze”. Camillo ha formulato lo stesso concetto nelle parole: si abbandoni “tutto al compiacimento della volontà de Dio… abbandonando totalmente la propria volontà”. Si tratta quindi di un perdere se stesso, per ritrovarsi in una dimensione diversa di vita, “secondo il Signore”. Ma che si intende dire con “rinnegare”? Se ci rifacciamo al rinnegamento più famoso narrato dai vangeli, quello di Pietro, significa dire di se stesso: “non conosco quest’uomo” (Lc 22,57); è negare di conoscere chi in realtà si conosce. Ecco allora una condizione implicita nella richiesta della sequela della croce: se il fine è il “perdersi per trovarsi (in Dio)”, la condizione indispensabile è l’esatto opposto, ovvero il “trovarsi per perdersi”! “Situata nella temporalità e nel limite, la persona umana che non può conoscersi e possedersi totalmente, non potrà neanche darsi o perdersi così totalmente da eliminare il rischio (o la possibilità) di riprendersi in un “dopo” o in qualche altro modo”.
Per delucidare ulteriormente questo aspetto, che spesso non è sufficientemente tenuto in debita considerazione, richiamiamoci anzitutto al principio generale del senso comune, secondo il quale nessuno può dare ciò che non possiede: un cammino di fede non può esistere se prima (o almeno nel medesimo tempo) non esiste una certa maturità umana; per dirla con l’Imitazione di Cristo: “Il più elevato non si mantiene senza il più basso”. Così vuole la legge dell’incarnazione.
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