Il 14 luglio di ogni anno nel calendario romano ricorre la festa di san Camillo de Lellis, patrono dei malati, degli ospedali e degli operatori sanitari. La personalità del Santo si potrebbe riassumere in poche parole: da soldato di ventura a “servo” dei malati. Da giovane – e scapestrato qual era – Camillo pensò di seguire le orme del padre arruolandosi nell’esercito della Serenissima di Venezia contro i turchi, ma a causa di un’ulcera varicosa al piede destro fu costretto a cercare – come infermiere – cure gratuite all’ospedale San Giacomo degli Incurabili a Roma, da dove però venne presto allontanato a causa di una passione smodata per il gioco delle carte. Congedato da militare, fu accolto dai frati Cappuccini di Manfredonia come manovale, in cambio di vitto e alloggio. E qui, un giorno, fu folgorato dalla Grazia di Dio…
Un gigante dal cuore d’oro
Tornato una seconda volta all’Ospedale degli Incurabili, Camillo si senti come un cieco che ha riacquistato la vista, osservando ciò che non aveva saputo vedere durante il primo ricovero: malati non accuditi, abbandonati a se stessi, moribondi… vedendo la realtà con occhi nuovi, divenne servo di tutti: «Non chiedetemi “per favore” quando avete bisogno», diceva loro, «perché voi siete i miei padroni». Gigante di oltre due metri, la prestanza fisica lo aiutò a farsi obbedire dagli altri inservienti e in breve l’Ospedale cambiò aspetto: le finestre delle corsie furono aperte, la pulizia si fece strada, i contagiosi furono isolati e il vitto maggiormente curato. Anche la sua vita cambiò: era successo qualcosa di imprevedibile, come tutto ciò che ha a che fare con la Provvidenza. Pur continuando a dedicarsi ai malati, Camillo si applicò nello studio, fu ordinato sacerdote, fondò gli Ordini dei Ministri degli Infermi (Camillini) – il cui distintivo è una croce rossa sul petto – e consumò la vita al capezzale degli infermi. Quando morì, nel 1614, san Roberto Bellarmino dichiarò che «per la sua carità, la sua anima aveva preso posto tra i serafini».
Il salvataggio dall’inondazione
In una tela del pittore francese Pierre Subleyras – che rappresenta la scena dell’inondazione delle acque del Tevere, avvenuta la notte di Natale del 1598 nella quattrocentesca Corsia Sistina (voluta da Benedetto XIV e in corso di realizzazione in quegli anni), unico ambiente di degenza dell’Ospedale Santo Spirito in Roma – colpisce la figura di Camillo con un malato sulle spalle (nella foto il particolare): il “fermo immagine” è l’idealizzazione dell’abnegazione che ha caratterizzato l’esistenza del Santo. Nel dipinto l’artista interpreta lo spirito di Camillo celebrato dai biografi, lo stesso che più di un secolo dopo il pittore Van Gogh realizzerà nel suo “Buon Samaritano”, «figura atletica, flessibile come una fiamma strapazzata dal vento, teso nel dare al proprio corpo la forma del peso altrui. E cos’altro è la carità se non proprio questo scatto di reni? Gli sguardi dei due protagonisti non si incrociano. L’uno è chiuso dal dolore, quello di Camillo è compreso dallo sforzo fisico. Ma l’abbraccio sembra di una intimità costruita negli anni» (monsignore Francesco Beschi, Vescovo di Bergamo).
Dalla durezza alla tenerezza
La rappresentazione del Subleyras è l’icona del “Buon Samaritano”. «Va’, e anche tu fa’ lo stesso», è l’indicazione che Gesù consegna al discepolo che crede in Lui. In Camillo la conversione è una trasformazione che descrive il passaggio dalla durezza alla tenerezza del cuore, dal timore all’amore, dalle opere di misericordia a un cuore misericordioso. E l’esercizio della Carità è la strada sulla quale avviene il mutamento da “un cuore di pietra a un cuore di carne”: insegnamento che Camillo offre con il suo amore misericordioso.
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