di p. Luciano Sandrin per Missione Salute
C’è un aiuto che aiuta e un aiuto che danneggia. Ce lo ricorda Giorgio Nardone nel suo libro sulle Psicotrappole, e cioè sui vari modi di pensare e di agire attraverso i quali ci complichiamo la vita o la complichiamo agli altri. E ce lo spiega: «Offrire il nostro aiuto a una persona in difficoltà è certamente un atto nobile e utile, ma prodigarsi per allontanare ogni ostacolo a un figlio o a una figlia significa impedirgli (o impedirle) di sviluppare la fiducia nelle proprie risorse personali». C’è un comportamento che “aiuta” nell’immediato ma “danneggia” il cammino di crescita della persona che vogliamo aiutare e di scoperta delle proprie forze per trasformare i limiti in risorse e i problemi in soluzioni. È importante aiutare ma è dannoso sostituirsi alla persona interessata al nostro aiuto.
Il discorso vale anche se guardiamo la relazione di aiuto dalla prospettiva di colui che lo chiede. «Chiedere aiuto quando si è in difficoltà è un atto di umiltà; equivale ad ammettere i propri limiti e ci permette, se riceviamo l’aiuto corretto, di imparare a superarli; pretendere invece che qualcun altro si sostituisca a noi, conferma e rafforza la nostra incapacità». Essere salvati continuamente dal salvatore di turno ci rassicura ma rischia mettere in crisi la nostra autostima e di alimentare il nostro senso di insicurezza.
Questa psicotrappola può essere osservata nelle varie relazioni di aiuto e di cura, nelle quali si può creare una vera e propria dipendenza reciproca (co-dipendenza) nella quale l’aiutante si sente confermato nella sua identità di salvatore e l’aiutato nella sua identità di salvato: l’aiutante ha bisogno che l’altro abbia bisogno, altrimenti non sa più chi è; l’aiutato si sente il figlio prediletto e non rinuncia facilmente a questa sua rassicurante identità.
Aiutare ed essere aiutati può essere fonte di soddisfazione per i vari partner della relazione. Ma può fare danno ogni volta che limita la possibilità dei soggetti che ricevono l’aiuto di scoprire e sviluppare le proprie risorse, i propri talenti e le proprie capacità. Se ci sono delle psicotrappole ci sono però delle psicosoluzioni. È sempre importante tenere a mente la massima popolare: «insegna a pescare invece che regalare il pesce». O l’altra: «aiutati che il ciel t’aiuta», anche quando il cielo siamo noi. È importante chiedere aiuto senza delegare ma anche saperlo offrire senza sostituirsi a chi deve darsi da fare in prima persona.
Nelle relazioni in cui aiutiamo gli altri c’è un altro aspetto da tenere in considerazione: quando si aiuta una persona si dà per scontato che lei apprezzi. Ma non è sempre così. L’ho sottolineato nel libro Aiutare gli altri: la psicologia del buon samaritano. Il punto di vista del ricevente può essere diverso da quello di chi fa un dono o presta un aiuto. Agli occhi del ricevente ogni aiuto si presenta come un “dono misto” (mixed blessing): il confortante messaggio di essere degni dell’interessamento altrui ma anche, specialmente quando avviene pubblicamente, l’imbarazzante conferma dell’incapacità di risolvere i problemi da soli e la conseguente vergogna perché rivela la propria fragilità e conferma la propria inferiorità.
Vista dalla prospettiva di ambedue i partner della relazione la sequenza del comportamento di aiuto è complessa: la richiesta (o mancata richiesta) di aiuto da parte di chi è in difficoltà; la scelta dell’aiutante o donatore cui indirizzarsi; la decisione di aiutare o meno da parte della persona che lo potrebbe fare; il modo in cui l’aiuto viene dato e ricevuto; le conseguenze a lungo termine del rapporto di aiuto che si è istaurato. Scrive una psicologa: «Il momento cruciale dell’aiuto produce, infatti, non solo un effetto strumentale, di risoluzione del problema contingente che ha richiesto l’intervento dell’altro, ma anche un cambiamento profondo nell’immagine di se stessi e dell’altro: cambiamento che avviene sia in chi ha donato sia in chi ha ricevuto». E di questo bisogna tenerne conto.
L’aiuto dovrebbe essere rispettoso della dignità di chi lo riceve e durare il giusto tempo necessario. Spesso anche “l’aiuto benevolo” rischia di diventare un “sovraiuto” che crea ulteriore dipendenza e cronicizza il bisogno di aiuto.
Nel momento in cui riceve l’aiuto, o lo chiede, la persona ha bisogno di trovare un punto di equilibrio tra l’aver bisogno degli altri e il suo desiderio di autonomia. Il giusto equilibrio è dinamico. Ci ricorda Giorgio Nardone, alla fine del suo libro, che non si può rimanere a lungo fermi in equilibrio su una corda tesa, poiché l’equilibrio ha bisogno di movimento e di oscillazioni continue. È un’immagine circense che ci ha affascinato fin da piccoli
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