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di José Carlos Bermejo, MI
Sommario
Negli ultimi anni, nel contesto degli studi e delle ricerche di psicologia e di spiritualità, si parla di resilienza come possibilità per lo sviluppo e la crescita personale nella fragilità e nella sofferenza, nei traumi della vita. Una proposta o una chiave esistenziale densa di speranza. Non è un atteggiamento passivo verso la sofferenza, di rassegnazione, ma piuttosto un impegnativo lavoro su sé stessi e l’accoglienza di un accompagnamento, nonché la coltivazione di risorse interne (tra le quali la fede), per essere protagonisti nella sofferenza. San Giovanni della Croce, nella sua Salita dà particolare importanza alla gestione della memoria, fonte di sofferenza o fattore protettivo di resilienza. Liberare la memoria, apre la strada alla speranza. La sete e la passione per Dio si dinamizzano internamente nella sofferenza. Il loro sguardo del cuore – complementare a quello del corpo e della mente – ci permette di cogliere nuove possibilità per la salute, decentrandosi e liberando il cuore dal rimpianto. Ma la resilienza non è solo un atteggiamento individuale. Influisce in essa anche il significato attribuito alla sofferenza. San Giovanni della Croce si dimostra consapevole di tale significato, influenzato dal contesto culturale, ma soprattutto dall’adesione personale alla Croce. L’influenza di Teresa di Gesù, come maestra di resilienza non è indifferente. La resilienza non è una prerogativa esclusiva delle persone geniali. Se coltivata personalmente e relazionalmente, si può apprendere, si annida in chi si apre con un cuore affidabile e appassionato.
Introduzione
Ritengo di essermi incontrato tardi nella mia vita – provocato da Francisco Javier Sancho – con san Giovanni della Croce, ed in modo particolare con la sua opera Salita al Monte Carmelo. Come religioso camilliano (inesperto della prospettiva di san Giovanni della Croce), sono un figlio ‘debitore’ di uno sguardo sulla dimensione spirituale con una forte componente di orizzontalità nella ricerca del Dio incarnato, specialmente nel volto dell’uomo sofferente. La mia non-conoscenza ha generato in me una certa resistenza di fronte all’eventuale ricchezza di un referente così qualificato per la sua passione per Dio e per l’uomo, come san Giovanni della Croce. Superando le mie resistenze iniziali, ho scoperto diverse suggestioni interessanti per la pastorale della salute, sulla quale ho focalizzato tutta la mia vita, come chiave di umanizzazione. Sono stato sfidato soprattutto dall’opera Salita al Monte Carmelo e mi sono concentrato solo su alcuni aspetti che afferiscono alla categoria della resilienza come possibilità umana di fronte alla sofferenza.
Non sono certamente poche le provocazioni che sono state suscitate in me. La lettura di san Giovanni della Croce, unita ad alcune delle mie passioni, come il lavoro su un nuovo modo di pensare e di vivere la sofferenza in una prospettiva di fede[1], superando atteggiamenti passivi di dimissione o di semplice accettazione, o anche di adattamento, per cominciare a vivere in termini di attività e di appropriazione in modo che la sofferenza non generi atteggiamenti vittimistici o di pura sofferenza, ma diventi un trampolino di sviluppo personale.
Ho percepito nell’epoca storica di san Giovanni della Croce, una particolare attenzione per la sofferenza generata dal lutto, per il dolore generato dalla perdita di una persona cara e per la volontà di offrire sollievo attraverso l’accompagnamento con il lavoro di preparazione psico-spirituale che è necessario per reinventarsi secondo le nuove coordinate scaturite dalla rottura delle relazioni più significative.
Ho trovato nell’esperienza di san Giovanni della Croce un processo di morte in cui gli uomini convivevano con i limiti della medicina e con la scarsa capacità di alleviare le sofferenze proprie della natura umana vulnerabile.
Mi è sembrato di percepire una intensa interpellanza nella Salita al Monte Carmelo, in particolare nel terzo libro, rispetto a situazioni che solitamente incontro in pastorale sanitaria, confrontandomi con le immagini di Dio poco purificate dal messaggio genuino del vangelo. Ho sentito il grande interesse di san Giovanni della Croce di non cedere all’illusione di miracoli superficiali o a preghiere di intercessione per la ricerca di ciò che è percepito come buono (per la salute) ma non è allineato con la volontà e l’accettazione del mistero di Dio.
Ho colto come san Giovanni della Croce coltivasse una visione olistica dell’essere umano, in cui la dimensione spirituale era ben integrata con il resto della vita, occupando un grande valore e un potenziale motivazionale che è allineato con una visione positiva della persona. L’essere umano è caratterizzato da una grande dignità intrinseca – nonostante i suoi limiti – che deriva dal suo stesso Creatore, che, incarnandosi si umanizza, facendosi prossimo a noi, bello e attraente, per offrirci un modello di dignità sempre rispettabile e meritevole di un profondo lavoro introspettivo[2].
Ho scoperto un mondo da esplorare in relazione all’esperienza delle notti della persona, con le sue forme di passività e di attività e di tanti possibili agganci con l’esperienza della sofferenza umana e le possibilità di essere vissuta in modo costruttivo, non nella prospettiva della semplice rassegnazione, ma come opportunità e purificazione per coloro che si avviamo in percorsi di nudità interiore[3].
Tra le diverse suggestioni, essendo la mia riflessione contingentata, mi sono concentrato solo su questo aspetto abbastanza nuovo di vivere la sofferenza in modo salutare: la resilienza.
Resilienza: canto alla libertà
Intuisco che l’esperienza che ci trasmette san Giovanni della Croce nella sua Salita al Monte Carmelo sia fondamentalmente un’esperienza di liberazione guidata dalla sete di un autentico rapporto con Dio. La resilienza è proprio un canto di libertà, una forma di negazione del determinismo e del pessimismo, un stile esperienziale di collocarsi davanti alle crisi, sia proprie che altrui. È un ‘inno alla vita’ in mezzo alle difficoltà, un brindisi alle possibilità, talvolta nascoste alle persone che si trovano in mezzo alla sofferenza. Tuttavia, se viene frainteso, potrebbe anche scadere in un puro volontarismo o addirittura nel dolorismo.
Che cosa intendiamo quando parliamo di resilienza? Sostanzialmente quando pensiamo positivamente in mezzo alle crisi! È possibile. Siamo favorevolmente influenzati dalla psicologia positiva di Seligman[4], con le sue applicazioni al mondo del sostegno sanitario e dell’azione sociale. Siamo aiutati dagli studi di Boris Cyrulnik[5], uno dei migliori esperti in materia.
Questo costrutto psicologico ci aiuta a comprendere che i fatalisti, che si rifugiano nella passività del ‘destino’, hanno una scelta molto limitata di possibilità. Noi stimoliamo a promuovere l’ottimismo, la speranza, la libertà e la responsabilità, in mezzo alle difficoltà: ‘superare l’amore con un altro amore più grande e migliore’ (1 S 14,2). San Giovanni della Croce conosce le sofferenze, ma riconosce anche gli affetti, e avranno su di lui un grande impatto i versi uditi a Beas nel 1578, quando stanco, e salutando le monache in parlatorio, udrà un ritornello:
Quien no sabe de penas en este triste valle de dolores,
no sabe de buenas
ni ha gustado de amores,
pues penas es el traje de amadores.
Chi non conosce pene in questa triste valle di dolori,
non conosce le cose buone
né ha gustato gli affetti,
perché le pene sono l’abito di coloro che amano.
Dei mistici diciamo che sono cresciuti in mezzo alle difficoltà, che sono stati capaci di ‘fare di necessità, virtù’. Teresa, giusto per fare un nome, parla di questo atteggiamento in particolare nelle Terze Stanze del suo Castello interiore. Non si tratta di concentrare l’attenzione sul dolore, sull’esperienza traumatica, quanto sulla possibilità di non dedicare al dolore stesso tutta la nostra energia fino a farlo diventare l’unico aspetto della nostra stessa esistenza. È una disposizione spirituale che evoca un modo molto concreto di essere nel mondo, di rapportarsi con sé stessi, con gli altri e con Dio. La vita presenta delle ‘purificazioni’ anche senza volerlo (notte passiva), ma possiamo anche fare qualcosa per liberarci (notte attiva) dalla schiavitù del trauma e crescere in essa[6]. San Giovanni della Croce cerca non solo Dio, ma anche di crescere in Dio[7].
Ammirazione realistica
Osservando le ossa che si fratturano e che possiedono la capacità – resilienza – di ri-comporsi correttamente dopo che si è verificata la frattura, anche noi ci sentiamo sfidati a traslare il medesimo potenziale di crescita a livello psico-spirituale. Questo evoca la capacità di san Giovanni della Croce che ha affrontato il tempo buio nella prigione di Toledo, sopravvivendo a tutte le forme di sofferenza, non solo in termini di resistenza, ma anche di tenacia e di fede.
Guardare i metalli che hanno questa capacità di sopportare i colpi, deformandosi e recuperando poi la loro stessa struttura, e sentirsi sfidati nelle nostre crisi personali, è affascinante. È questo che ha fatto san Giovanni della Croce nel suo impegno di rinnovamento della vita religiosa con il ritorno alla sua fonte più genuina: il Vangelo.
Considerare la persona come essere capace di preservare la sua integrità in tempi difficili e maturare dopo le avversità, utilizzando tutte le risorse personali e ambientali che ognuno può avere, è fonte di grande speranza. È quello che ha sperimentato san Giovanni della Croce in mezzo alle avversità che ha attraversato.
Attenzione agli equivoci! Parlare di resilienza non è parlare di mero volontarismo. La resilienza non dipende esclusivamente dalla disposizione volontaria di coloro che sono in mezzo a sofferenze o avversità. Non è la semplice decisione di perpetuare la sofferenza con un atteggiamento vittimistico. Teresa di Gesù, ha parlato del vittimismo che canonizza la sofferenza in questi termini: «Io non ho trovato alcun rimedio né ho offerto alcun conforto a queste persone, se non mostrando grande partecipazione al loro dolore (e a dire il vero erano oppressi da grande miseria!) e non contraddicendo la loro ragione; perché tutti sono d’accordo nell’idea che soffrono per Dio e quindi non capiscono che è l’imperfezione; che è un altro inganno per le persone così sfruttate; di quello che provano non devono essere spaventati. (…) Nel loro pensiero canonizzano queste cose e così vorrebbero che anche gli altri le canonizzassero» (3 M 2, 1-2).
Per parlare di resilienza è necessario fare un patto, anzitutto, con la realtà, non negare che la sofferenza è sofferenza e che la persona è ciò che è. In una certa misura, la resilienza è innata, in qualche misura viene appresa attraverso esperienze di vita in cui abbiamo imparato a dare significato alle difficoltà e in qualche misura dipende dall’ambiente sociale, dal sostegno che riceviamo. In ogni caso, come per san Giovanni della Croce, è un percorso di liberazione dello spirito[8].
Per questo motivo, conviene essere prudenti nell’usare in modo condiviso questa categoria. Non si può ridurre all’atteggiamento positivo di fronte alle crisi, all’attitudine verso l’inevitabile, al desiderio di crescere di fronte alle avversità. Infatti, è noto che i fattori di potenziamento della resilienza attengono, certamente, con al temperamento e all’atteggiamento della persona, ma anche al significato culturale che attribuiamo alla difficoltà, alla sofferenza o alla crisi, così come sono connessi al supporto sociale su cui la persona può contare. La resilienza, quindi, non è una questione volontaristica, non risponde solo alla disposizione secondo la quale la persona desidera, chiede e vuole collocarsi in mezzo alla sofferenza.
Potremmo dire che la resilienza è come il sistema immunitario psico-spirituale con cui rispondiamo alle avversità.
Resilienza e la libertà
Una delle espressioni spontanee che usiamo con le persone che soffrono, nel tentativo di fare pace con l’inevitabile, è questa: ‘è il destino’ o ‘è già stato segnato’. Naturalmente, è l’opposto della resilienza. Dietro queste espressioni c’è una specie di conformità deterministica alle cose così come si presentano, una sorta di fatalismo al cui fondamento si può scorgere un atteggiamento passivo e di rassegnazione. Boris Cyrulnik osserva che non necessariamente un bambino maltrattato diventerà un carnefice. C’è molto protagonismo nei versetti di san Giovanni della Croce nell’opera Fiamma viva d’amore:
¡Oh cauterio suave! ¡Oh regalada llaga!
¡Oh mano blanda!
¡Oh toque delicado
que a vida eterna sabe
y toda deuda paga!
Matando, muerte en vida has trocado.
O cauterio soave! O deliziosa piaga!
O tenera mano!
O tocco delicato,
che sa di vita eterna e ogni debito paga!
Uccidendo, morte in vita hai mutato.
Infatti, ci sono diversi modi per non rassegnarsi allo scetticismo di fronte all’incertezza e alla sofferenza. Tra gli altri, la convinzione che ciò che facciamo, in qualche modo ritorna su di noi, in modo che l’esercizio della responsabilità personale sarà sempre presente nel corso degli eventi. Allo stesso modo, pensare alla resilienza come categoria per esplorare le mie potenzialità in mezzo alle avversità, genera un atteggiamento fiducioso in relazione alla realtà stessa, nonché una rinnovata volontà di speranza.
Non è quindi il destino che traccia la nostra traiettoria di vita; né siamo definitivamente ed esclusivamente determinati dai nostri geni. La struttura interiore e il rapporto con l’ambiente esteriore possono propiziare il cambiamento del corso della vita, anche per quelli che non si attendono più nulla di buono dalla loro esistenza. Forse per san Giovanni della Croce, la via purgativa, illuminativa ed unitiva, sono cammini di libertà, alla ricerca della virtù, che trascendono le nostre passioni, per cominciare a poter vivere, a partire dall’unione mistica come anche dal suo essere dolente e sofferente, una rinnovata crescita interiore, per una nuova umanizzazione che diviene scoperta del significato della sua sofferenza a partire dall’amore.
Così, la resilienza non è assoluta, non è una capacità che si acquisisce o si dispiega una volta per tutte, ma si rivela come un processo dinamico e continuo, che varia a seconda delle circostanze, delle caratteristiche del trauma, del contesto, della fase di vita in cui si trova la persona, della cultura e del discernimento che realizzato in essa.
Guardando alla sofferenza
In effetti, ci sono persone che hanno un temperamento individuale caratterizzato dalla libertà, che non si rassegna al fatalismo, che non legge le proprie esperienze in termini vittimistici e che sono abitate dal dinamismo della speranza proprio in mezzo alle prove. Ci sono persone che sono in grado di ricordare le crisi e i traumi come esperienze, come le folate di vento che fanno aggiustare le vele della barca, invece di essere deterministicamente condotti e guidati nella loro direzione. Ci sono persone che sanno guardare in modo resiliente perché non sono fossilizzati sulla realtà con uno sguardo negativo, sanno prendere la giusta distanza dai problemi e persino relativizzare e chiedersi se ciò che accade di negativo, sia veramente tale o non possa piuttosto diventare una opportunità. È quello che san Giovanni della Croce fa con la propria esperienza di sofferenza.
Lo sguardo come fattore protettivo di resilienza è lo sguardo che libera da ogni attaccamento a fissazioni, ad immagini e a idee (2 S 16 e 22). Per san Giovanni della Croce ci sono diversi tipi di occhi/sguardi sulla realtà. Ci sono soprattutto le prospettive di comprensione che nascono alla luce di Dio: esperienza che si possono vedere illuminate da Dio, che possono incentivare l’unione con Lui, oltre alle rivelazioni … dal sapore più profetico (2 S 11-16). Lo sguardo decentralizzante-mistico su sé stessi per amore di Dio, offre un altro possibile centro prospettico, ricco di significato, in mezzo alla sofferenza.
Significato della sofferenza
Ma non è solo una questione di personalità. Vivere in modo resiliente le tensioni dipende anche dal significato che ognuno attribuisce alle disgrazie. Infatti, a volte, i significati e le parole con cui interpretiamo le nostre crisi possono essere ancora più violenti dei colpi ricevuti. La rappresentazione di ciò che ci accade può essere ancora più dolorosa della realtà stessa. San Giovanni della Croce dirà che non sono le cose, ma il significato che attribuiamo a loro, che ci danneggia[9].
Possiamo dire che è molto di più la pro-attività, che non la passività, che ci indica le potenzialità resilienti. La persona pro-attiva è quella che assume l’iniziativa, prende le redini della propria vita, si sente responsabile anche rispetto a ciò che non può cambiare, si sente libera, paradossalmente, anche in mezzo a tutto ciò che lo può far ‘sentire schiavo’.
Dal punto di vista della logoterapia, diremmo che la volontà di cercare una ragione di ciò che ci accade, anche se non capiamo il perché, fa parte di questa volontà di crescere anche nelle situazioni emergenziali.
La resilienza, in ultima istanza, è il risultato di una molteplicità di processi che contrastano situazioni nocive o di crisi. La concezione della sofferenza come una opportunità si arricchisce approssimandosi all’idea di essere una conseguenza del desiderio dell’anima appassionata, ‘ferita dall’amore’, nella ricerca di Dio. La rinuncia non è la prima cosa, ma una conseguenza dell’impulso d’amore/appassionato.
È una dinamica in cui si possono evidenziare alcuni elementi: autodifesa e protezione di se stessi, equilibrio di fronte alle tensioni, impegno rispetto a ciò che accade, responsabilità attiva, sforzo per il miglioramento, capacità per dare senso e per riorientare la propria vita nella crisi, visione positiva in mezzo alla negatività, capacità creativa di reazione[10].
Non è una sofferenza cercata, ma parte di un processo di purificazione che, per san Giovanni della Croce, costituisce un mezzo, non il fine: (1S 1, 1). «Molto ambiguo è il monaco – avverte san Giovanni – che si compiace delle sue auto-torture, perché non si tratta di provare alcun piacere nel dolore»[11].
Quando, a volte, siamo inclinati ad un significato doloristico, possiamo ben pensare che sia una sofferenza ministeriale, quella a cui ci si riferisce. Un giorno il Signore disse a san Giovanni della Croce (relato di un suo confratello): ‘Fra Giovanni, chiedimi quello che vuoi: io te lo concederò per questo servizio che mi hai reso’! San Giovanni della Croce rispose: ‘Signore, quello che voglio che tu mi dia, sono servizi che mi facciano patire per te e che siano disprezzati e tenuti in poco conto’! Con lo stile dell’epoca, in effetti, sembra essere un modo per parlare di … sofferenza ministeriale (Col 1,24)’.
Le penitenze corporali che san Giovanni della Croce si è inflitto, «non le ha mai considerate come un fine; per lui erano un mezzo indispensabile: per ottenere la piena padronanza del corpo e della sensibilità e per non essere di ostacolo alla mortificazione interiore, per entrare, attraverso la sofferenza corporale, nell’unione con il Redentore sofferente»[12]. Giovanni della Croce cerca la pura gioia di incontrare Dio, portando la croce.
Gestione della memoria
Una delle più grandi ricchezze della Salita al Monte Carmelo in relazione alla resilienza probabilmente ha a che fare con quello che dice della memoria.
La purificazione della memoria è soggetta al classico dinamismo sanjuanista: purificazione attiva e purificazione passiva. La prima richiede il nostro sforzo, mentre la seconda è una conseguenza dell’unione con Dio; vale a dire che dopo questi ‘tocchi’ di Dio, nessuna notizia o figura rimane nella memoria, come se nel mondo non ci fossero, lasciando la memoria libera e sgombra (3, 2,14).
Con questo, non vuol dire che le anime siano prive di memoria o volitivamente insensibili a tutto, ‘perché lo spirito di Dio ci fa sapere quello che dovremmo sapere, ignorando ciò che deve essere ignorato e ricordare cosa ricordare, e dimentica ciò che è dimenticato e ci fa amare ciò che dobbiamo amare e non amano ciò che non è in Dio’ (3 S 2,9).
La forza della memoria, infatti, si manifesta nella salute e nella malattia, nella energia costruttiva e distruttiva. San Giovanni della Croce lo conosce bene, dando così spazio alla gestione della memoria. Questa dinamica può rivelarsi molto suggestivo per i professionisti dell’aiuto. Questa è una delle situazioni più frequenti e difficili: accompagnare a vivere in modo salutare i ricordi delle separazioni (la separazione dai genitori, dai figli, dagli amici, dalla salute, dall’immagine dell’efficienza personale – nella perdita del lavoro …). La vita di ciascuno è accompagnata da una sequenza ininterrotta di separazioni: cercate o imposte, fisiologiche o relazionali, tragiche o benefiche.
Nei capitoli 3-6 del Libro III, san Giovanni della Croce richiama l’attenzione del lettore su una emergenza spirituale e psicologica di primo ordine: la purificazione della memoria, il risanamento dei ricordi e le aspettative personali[13].
Nella nostra memoria abbiamo immagazzinato esperienze piacevoli la cui evocazione ci riempie di gioia e qualche volta compensa la realtà attuale con la nostalgia e, talvolta, ci incanta come in una nube, la nube della irrealtà/onirica. Le esperienze positive del passato, quando sono evocate in modo corretto e salutare, ci permettono di scoprire in loro il valore che non possiamo trovare nel presente attuale. Sembra che tornare al passato sia come bere ad una sorgente per calmare la nostra sete di autostima e per ricostruire una identità rovinata o impossibile da ri-disegnare nel presente.
Ma abbiamo registrato anche le esperienze spiacevoli, le perdite vissute come aggressioni al nostro presunto diritto all’integrità personale invulnerabile. Le esperienze negative, d’altra parte, possono essere evocate in modo positivo o negativo, per crescere o per soffrire di più. La verità è che contro la memoria sembra essere meglio non combattere, ma piuttosto condurla e gestirla. Dimenticare il passato sarebbe come dimenticare un grande maestro, molto intimo, la storia stessa scolpita nel nostro cuore.
La memoria delle esperienze negative può servire a confermare il percorso di crescita e di maturazione, per delineare più chiaramente il confine tra il prima e il dopo. Chiunque ricorda una separazione dolorosa può definire realisticamente il presente e controllare le proprie energie o può inutilmente entrare una situazione senza via d’uscita. San Giovanni della Croce osserva: ‘Quanti danni causano i diavoli nelle anime attraverso la memoria (…); quanti tristezze e afflizioni …’ (3 S, 4).
Nel nostro passato risiedono molte chiavi interpretative per la comprensione di noi stessi e per la nostra felicità. L’arte di essere infelici consiste nel rimanere indefinitamente fissi sul passato, essendo ostinatamente fedeli a ragioni o a sentimenti che in passato si erano rivelati importanti. Pensiamo a coloro che non si separano dalla memoria di un torto ricevuto, cioè a coloro che non si separano mai dal rimpianto, attraverso il perdono. Pensiamo a colui che, dopo un fallimento in amore, stabilisce un rapporto identico con una persona quasi identica alla precedente, e con un finale di relazione quasi identico e facilmente prevedibile. Pensiamo a coloro che non cambiano i propri comportamenti che si sono già rivelati essere dannosi per sé stessi e per gli altri, apportando abbondanti sofferenze. La sfida, secondo san Giovanni della Croce, è ‘imparare a mettere le potenze in silenzio affinché sia Dio a parlare’. È ‘cercare una memoria moderata e in pace’. Propone ‘la dimenticanza e lo svuotamento dei pensieri della memoria, quando tormentano, disturbano ed alterano l’animo. Più la memoria si rilassa, più la speranza eleva l’anima in Dio’ (3 S 7).
È nella purificazione della memoria che si apre la speranza che ha mille nomi, soprattutto in mezzo alla sofferenza e che per san Giovanni della Croce è, in ultima analisi, la comunione con Dio. Stretto dall’ansia, in mezzo ai problemi, all’insicurezza, l’uomo ha una risorsa a cui ancorarsi per sentirsi un po’ più sicuro. La speranza, per essere tale, deve essere radicata nella realtà, anche nella realtà del desiderio, ma non in una vana illusione. Così, l’attesa si carica di un dinamismo che trasforma il presente rendendolo più attivo e gustoso.
Forse la più grande fiducia per san Giovanni della Croce consiste nel sentirsi aspettato ed amato. È un sano ricostituente per tutti, ma molto di più per chi vive la stagione della vulnerabilità. Visto che l’essere atteso infonde speranza nella debolezza, genera sicurezza, fa germinare la fiducia e le energie del desiderio e queste risorse positive ribollono nelle cellule come anticorpi che combattono le cause del male. Per questo, ritengo che essere attesi/sperati sia un evento di natura terapeutica.
Forse essere attesi/aspettati ci guarisce non solo dall’insicurezza generata dalla debolezza, ma anche dall’inganno in cui viviamo quando ci sentiamo autosufficienti ed onnipotenti. Essere attesi, in fondo, ci guarisce dalla solitudine a cui il nostro peccato d’orgoglio ci condanna. La speranza pone la memoria nel vuoto secondo san Giovanni della Croce, la colloca al buio e nella disposizione per l’unione con Dio. La mette in un ‘bagliore luminoso della notte, riscoprendola amabile più che l’aurora’[14].
Essere aspettati, in fondo, ci fa vivere. Nessuno può vivere se nessuno lo aspetta, o forse è molto facile morire se nessuno ti aspetta. Essere attesi è una forma di cura. Perché, in qualche modo, possiamo dire che viviamo nella speranza di essere attesi da qualcuno. La speranza, in fondo, è come il sangue: non è visibile, ma se non c’è, se non circola, sono morto. D’altra parte, se uno è abitato dalla speranza, attraversa le crisi con un dinamismo costruttivo e resiliente. ‘Non è una memoria nuda o una prospettiva che danneggia; è il gusto o il disgusto gestiti correttamente. L’educazione della memoria consiste nel filtro teologico che viene posto ai ricordi o alle anticipazioni in modo che passa solo ciò che porta fedeltà e speranza unitiva di fronte a Dio’[15].
Tutor di resilienza
La reale possibilità di crescere nelle avversità, oltre ad essere basata sul comportamento personale e sul significato attribuito ad esse, è in funzione del tutor di resilienza come un fattore protettivo. San Giovanni della Croce, senza dubbio, ha dei riferimenti importanti a cui è possibile attribuire questo titolo.
È un po’ sorprendente come san Giovanni della Croce, nonostante tutte le esperienze negative che ha vissuto dalla sua infanzia, con la povertà testimoniata da sua madre Caterina, vedova di Juan de Yepes, per concludere con la fine umanamente incomprensibile del trattamento ricevuto dai suoi confratelli nella prigione di Toledo, abbia conservato una valutazione/stima molto alta della persona umana. Oltre ad essere peccatore, ai suoi occhi, ogni uomo ha una dignità così elevata che Dio abita essenzialmente in lui.
Oltre ad essere stato accompagnato da sua madre in tali situazioni di precarietà[16]; oltre ad essere stato aiutato dal carceriere per fuggire dalla prigione, ha un riferimento molto importante – di madre e di maestra – in Teresa di Gesù, con cui mantiene una relazione che in parte potrebbe essere letta secondo il paradigma del guaritore ferito. Entrambi ricevono aiuto, entrambi hanno la propria sete e la loro vulnerabilità, entrambi disegnano le proprie risorse da soli e si sentono potenziati dall’incontro con l’altro.
La croce è senza dubbio il più importante tutor di resilienza per san Giovanni della Croce. Per lui la croce è una porta, un sentiero ed una meta[17]. La centralità del messaggio sanjuanista risiede nella croce[18] che si concreta nel libro secondo della Salita al Monte Carmelo nel capitolo settimo, dove ha sviluppato il tema della chiamata di Gesù ai discepoli a seguire la strada stretta dopo essere entrati per la porta stretta, perché ‘se l’uomo è determinato a sottomettersi nel portare questa croce, che è un decidersi a voler trovare e portare il lavoro in tutte le cose per Dio, in tutte queste situazioni troverà grande sollievo e speditezza a (camminare) in questo modo, spoglio di tutto, senza voler nulla. Ma se pretende di avere qualcosa, ora da Dio, ora da qualcos’altro, con alcune proprietà, non si è spogliato di tutto; quindi non potrà adattarsi e non potrà salire su questo stretto sentiero’ (2S 7,7).
Hans Urs von Balthasar osserverà che per san Giovanni della Croce ‘la bellezza è un’ossessione; è per lui un obiettivo, ma è anche un percorso’[19]. Per lui ‘il motivo costante è che il vero luogo della bellezza è la contemplazione e questa riposa al vertice di tutte le forme finite del mondo, essendo una cosa sola con la fede, con la notte, con l’amore. (…) Solo quando l’amante cerca gli occhi dell’ultimo Amato che si aprono, si spalancano anche i propri occhi su tutti gli scorci di bellezza che l’Amato ha determinato nel mondo e quella di Dio consiste nell’amore a Dio che mediante la grazia trasforma l’anima in Dio. A questo punto germina senza cessare la parola “bellezza” dalla penna/piuma di san Giovanni della Croce, che è come inebriato …’[20].
È la relazione con Dio che massimizza la resilienza. ‘Per Giovanni della Croce l’unione mistica, ossia la vetta della santità cristiana è in primo luogo il legame teologico e vitale con Dio, ma implica anche la perfezione etica, la maturità umana e la salute psichica’[21]. Supporto e significato[22] sono le due chiavi fondamentali per la resilienza e sono entrambe presenti nel modo in cui il mistico vive nella sofferenza.
Conclusione
Come san Giovanni della Croce, rivolgendosi al suo superiore provinciale, agonizzante, gli dirà: «Perdonatemi, Padre, io non posso rispondere, mi sto bruciando nel dolore»[23], così anch’io devo ammettere che non è possibile esplicitare la grande ricchezza che emerge nella Salita al Monte Carmelo, letta con gli occhi bramosi di un percorso di libertà in mezzo alla sofferenza.
San Giovanni della Croce ci invita a percorrere il cammino di svuotamento, di distacco, di povertà spirituale e di rinuncia a tutto per approssimarsi al Tutto.
Para gustarlo todo,
no quieras tener gusto en nada.
Para venir a saberlo todo,
no quieras saber algo en nada.
Para venir a poseerlo todo,
no quieras poseer algo en nada.
Para venir a serlo todo,
no quieras ser algo en nada.
Per giungere a gustare il tutto,
non cercare il gusto in niente.
Per giungere alla conoscenza del tutto,
non cercare di sapere qualche cosa in niente.
Per giungere al possesso di ciò che non hai,
devi passare per dove ora niente hai.
Per giungere a ciò che non sei,
devi passare per dove ora non sei.
Un ricco percorso di liberazione per vivere in modo sano la sofferenza nella fede. Al termine della sua vita, san Giovanni della Croce esclamerà come gli è stato attribuito: «Più pazienza, più amore e più dolore!»[24]. Tre chiavi ermeneutiche per vivere la sofferenza: la pazienza, ingrediente della speranza e l’amore, obiettivo ultimo dell’esperienza mistica.
[1] BERMEJO J.C., RÓMULO H., CUARTAS H., IRAGUI M., SANCHO F.J., La mística frente al sufrimiento. Claves para una vivencia cristiana del sufrimiento, CITeS, Avila 2006.
[2] CEREZO GALAN P., La recepción de los místicos Teresa de Jesús y Juan de la Cruz, Universidad Pontificia de Salamanca, Salamanca 1997, 171.
[3] SANCHO FERMIN F.J., Acercamiento de Edith Stein a San Juan de la Cruz, http://www.teresianum.net/wpcontent/uploads/2016/11/Ter_44_1993-1_169-198.pdf
[4] SELIGMAN M., La auténtica felicidad, Zeta bolsillo, Barcelona 2011.
[5] CYRULNIK B., Los patitos feos: la resiliencia. Una infancia infeliz no determina la vida, Gedisa, Barcelona 2002.
[6] SANZ DE MIGUEL E., El ingreso en la mística en las terceras moradas: la resiliencia, http://studylib.es/doc/2145179/el-ingreso-en-la-vida-m%C3%ADstica-en-las-terceras-moradas–la…, 7.
[7] MORENO Mª I., Llama de luz en la noche. Comprensión de la experiencia de la luz y de la oscuridad en san Juan de la Cruz, Monte Carmelo, Burgos 2015, 19.
[8] URBINA F., Comentario a Noche oscura y La Subida al monte Carmelo de S. Juan de la Cruz, Marova, Madrid 1982, 30 ss.
[9] RAMIREZ ZAVALA, L.E., La resignificación en el acompañamiento espiritual, como proceso que genera resiliencia en una mujer que ha sufrido violencia, 2012, http://repositorio.uahurtado.cl/bitstream/handle/11242/5494/MAPRam%C3%ADrez.pdf?sequence=1
[10] BERMEJO J.C., Resiliencia, PPC, Madrid 2011.
[11] CABRERA I., San Juan de la Cruz y el sufrimiento, www.revistadelauniversidad.unam.mx/ojs_rum/files/…/1/…/13843-19241-1-PB.pdf, 37.
[12] STEIN E., La ciencia de la Cruz, Monte Carmelo, Burgos 2014, 350.
[13] RODRÍGUEZ, J.V., San Juan de la Cruz. Obras completas, Ed. De espiritualidad, Madrid 1993,5, 165.
[14] MARTIN VELASCO J., El fenómeno místico. Estudio comparado, Trotta, Madrid 20033, 356.
[15] RODRIGUEZ J.V., San Juan de la Cruz. Obras completas, Ed. De espiritualidad, Madrid 1993,5, 166.
[16] RODRIGUEZ J.V., RUIZ SALVADOR F., San Juan de la Cruz. Obras completas, Ed. De espiritualidad, Madrid 19935, 4.
[17] STEIN E., La ciencia de la cruz, Monte Carmelo, Burgos 2014, 91.
[18] STEIN E., La ciencia de la cruz, Monte Carmelo, Burgos 2014, 76-77, 108-109.
[19] BALTHASAR H.U., Gloria III, Encuentro, Madrid 2011, 160.
[20] BALTHASAR, H.U., Gloria III, Encuentro, Madrid 2011, 166.
[21] PACHO E., Belleza, deleite y ascesis en Juan de la Cruz, en Estudios sanjuanistas II, Monte Carmelo, Burgos 2009, 1216.
[22] CYRULNIK B., Morirse de vergüenza. El miedo a la mirada del otro, Debate, Barcelona 2011, 75.
[23] MOLINA PRIETO A., El dolor sufriente en la vida y escritos de San Juan de la Cruz, https://dialnet.unirioja.es/descarga/articulo/1227027.pdf, 40.
[24] CRISTIANI L., San Juan de la Cruz, Ed. de Espiritualidad, Madrid 1983, 282.
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