All’origine di ogni vocazione, c’è dunque il Signore?
È la sua prima mossa? È lui che ha preso in mano il filo della nostra vita e ci ha condotti, attraverso le vie misteriose di una chiamata di cui non intravvedevamo gli sviluppi necessari, a consacrarci a Dio in questa determinata forma di vita?
Per Camillo non c’era dubbio. La prima mossa era di Dio, e doveva essere così, perché nessuna considerazione di ordine umano era in grado di orientare un giovane verso un istituto che impegnava all’eroismo, «contrarissimo a tutti i sensi dell’huomo, per versar circa luoghi infetti et ammalati…» (Cicatelli 103). Ma è così anche per la teologia cattolica, che definisce la missione in termini di vocazione. Nel vocabolo è evidente il rimando al mistero la cui natura ci sfugge, tale però da coinvolgere l’uomo fino a cambiarne radicalmente la storia in vista di un’opera da compiere. E così soprattutto per la teologia biblica, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento.
«Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni». Ci dice Marco (3,14). Il versetto è riassuntivo: mette in immediato rapporto la chiamata con i compiti ecclesiali che ne sarebbero derivati.
È interessante la terminologia di Giovanni nel racconto delle prime chiamate (Gv 1,35 ss) «Rabbi, dove abiti? … – Disse loro: «venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui» (Gv 1,37-38).
I discepoli gli chiedono dove abita, come dire: qual è la tua vita, il tuo modo di esistere, il mistero della tua persona. E Gesù invita a fare l’esperienza di tutto questo: «Venite e vedete». Qui il verbo vedere ha un contenuto quanto mai ricco: rendersi conto, apprendere di persona, fare conoscenza stando assieme, vivendo nella stessa casa, partecipando alle peregrinazioni, una conoscenza che crescerà gradualmente, fino a far propria, senza riserve, la sua missione, fino ad arrivare a quella identificazione con lui che faceva dire a S. Paolo: «Non sono più che vivo, ma Cristo che vive in me». (Gal 2,20).
Il discepolato esisteva già nelle strutture culturali e religiose d’Israele, ma era per apprendere la legge, per memorizzare e interpretare le Scritture. Qui è diverso: non si tratta di apprendere, ma di «agire», di «stare» con lui, stabilire un rapporto personale e permanente.
I momenti della chiamata, che per i religiosi di oggi sono distribuiti lungo gli anni, sono sostanzialmente presenti nel racconto di Giovanni: cogliere l’invito («se alcuno ispirato da Dio…»), fare anche delle verifiche, («venite e vedete») e poi «stare» con lui («vivere solamente a Gesù Crocifisso» dice la formula), una comunione di vita e di destino, una comunione vera, irrevocabile («sappia che ha da essere morto a tutte le cose del mondo»), e poi testimoniare («si dia la compiacimento della volontà di Dio», «nel servigio delli poveri infermi»).
È chiaro che non si tratta soltanto di rimanere sotto lo stesso tetto, ma di fare l’esperienza della sua persona, di accostarsi al suo mistero, di vivere costantemente una relazione di adesione e di amore, alla sua persona prima che alla dottrina da lui annunciata: egli è il ceppo nel quale siamo inseriti permanentemente, come modesti e pur robusti tralci (Gv 15,1 ss). «Abitare con Dio», «dimorare nella sua casa» diventa così un lasciarsi scegliere da lui, senza riserve mentali e senza zone franche.
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