L’etimologia collega la preghiera alla precarietà. La malattia, che fa sentire all’uomo la precarietà del suo esistere, il suo essere sovrastato da forze che lo dominano e la sua condizione di corpo minacciato, è una situazione in cui a volte anche l’uomo non credente vede sorgere in lui un’apertura al trascendente, una preghiera, o almeno un’attività linguistica che ha un “dio” come destinatario sia di suppliche che di invettive, di invocazioni e di bestemmie.
Per il cristiano la preghiera è ricerca di integrazione fra la vita tutta e tutte le situazioni esistenziali, dunque anche la malattia, e il Dio rivelato in Gesù Cristo. Se la preghiera è l’eloquenza della fede, la malattia, che mette in crisi l’integrità psicofisica dell’uomo, costituisce anche una prova della fede, dell’immagine di Dio che il malato nutre, e segna l’inizio di un cammino per rifare l’unità spezzata fra la propria vita personale e l’immagine di Dio, tra fede e vita. Che altro è, infatti, la preghiera se non il cammino in cui il credente, a partire dalle prove della propria vita, purifica e converte le proprie immagini di Dio ponendole davanti al Cristo crocifisso, piena e definitiva rivelazione del volto di Dio? L’esempio di Paolo è significativo. Afflitto da una “spina nella carne” che con tutta probabilità consiste in una malattia, egli prega intensamente il Signore di liberarlo da questa sofferenza, ma la sua preghiera incontra questa risposta del Signore: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9). La preghiera di Paolo resta non esaudita, ma non inefficace: essa infatti porta Paolo ad accogliere la volontà di Dio e a mutare la sua immagine di Dio vedendosi maggiormente conformato all’immagine di Dio che è il Cristo crocifisso.
La preghiera cristiana aiuta la conformazione del credente al Cristo crocifisso. Abbiamo qui un criterio importante della preghiera cristiana e della preghiera di domanda in particolare. La preghiera esprime una relazione filiale e manifesta la fiducia con cui un figlio si rivolge al Padre: in questa relazione tutto può essere chiesto, anche – ovviamente – la guarigione, non solo la forza di sopportare la prova. Del resto, quando l’uomo prega porta tutto se stesso nella preghiera, anche il desiderio di pienezza di vita, anche le persone con cui vive o ha vissuto, anche la sua storia passata e il suo anelito di futuro. L’Antico e il Nuovo Testamento sono pieni di domande di guarigione rivolte a Dio e a Gesù e la tradizione cristiana ha forgiato quell’immagine del “Cristo medico” cui sono rivolte bellissime preghiere e in base alla quale Ambrogio scrive: “Cristo è tutto per noi. Se vuoi curare una ferita, egli è il medico; se bruci dalla febbre, egli è la fonte d’acqua; se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita“. Al tempo stesso, la relazione di filialità espressa nella preghiera all’Abba, trova per il cristiano un esempio normante nella preghiera del Figlio, Gesù Cristo. E la preghiera di Gesù al Getsemani chiede sì che, se possibile, il calice passi da lui, ma subito aggiunge: “Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36), “Non come voglio io, ma come vuoi tu” (Mt 26,39).
Vi sono un modo e un contenuto che rappresentano i limiti al cui interno la preghiera cristiana di domanda deve sempre accettare di avvenire: modo e contenuto che si sintetizzano nella croce di Cristo. La preghiera cristiana non chiede che Dio faccia la volontà dell’uomo, ma porta l’uomo a discernere e a sottomettersi alla volontà di Dio. La preghiera del malato è dunque anche una lotta nella quale egli potrà arrivare a dare il nome di croce alla propria malattia che non guarisce. In questo suo cammino faticoso è certamente consigliabile al malato la preghiera dei salmi: questi, infatti, rappresentano una riserva di linguaggio estremamente ricca per uomini moderni che sono incapaci di “dire” la sofferenza, di “dire” il proprio corpo (il malato che prega nei salmi sempre legge e dice il proprio corpo, mostrando così che pregare è leggere la propria situazione esistenziale davanti a Dio per vivere in obbedienza a Dio), e di dirli “davanti a Dio”. I salmi, in cui spesso l’orante prega a partire da una situazione di sofferenza, sono al tempo stesso una testimonianza e un modello: testimonianza di chi si trova nella malattia o l’ha traversata, modello per chi oggi vive un’analoga esperienza e, mediante l’appropriazione, trova nelle parole del salmo le parole con cui dire la sua situazione.
Certo, normalmente la malattia fa emergere la qualità e la misura di preghiera cui si era abituati: se non si è mai pregato, sarà difficile inventare la preghiera nei momenti più critici. Ma anche quando non si sa o non si riesce a esprimere verbalmente una preghiera, per mancanza di forze, per impotenza, la fede riconosce che il malato, nella sua stessa debolezza e fragilità, è supplica vivente rivolta al Signore, è preghiera. L’accompagnatore poi, che ha a lungo ascoltato il malato, può arrivare a discernere se è possibile proporre al malato di pregare insieme, di ascoltare insieme la parola del Signore contenuta nella Scrittura, nei vangeli. E comunque l’accompagnatore potrà sempre pregare intimamente, in cuor suo, di fronte alla non disponibilità del malato. Di certo, l’accompagnatore è chiamato a stare vicino al malato anche nella distanza da lui, e questo con l’intercessione. Nell’intercessione, nel ricordare davanti al Signore il malato, l’orante ottiene in dono uno sguardo rinnovato e purificato su di lui, uno sguardo più conforme allo sguardo di Dio stesso. E non si dimentichi mai che la preghiera per il malato e con il malato non può non rivestire una dimensione ecclesiale: una comunità cristiana locale che si riunisca in preghiera attorno a un malato riconosce nella sua persona il sacramento del Cristo che edifica la comunità con la potenza della sua debolezza.
I Camilliani su Facebook
I Camilliani su Twitter
I Camilliani su Instagram