Avvenire 04/06/15 di Marco Iazzolino
Alle due di notte gli occhi si spalancano. Una voce disperata accompagna l’ennesima scossa. «Aama, Aama», mamma, mamma in nepalese. Conosciamo quella voce: è di Dipdarsan, il bambino di 11 anni che sta nella tenda vicino. Ogni notte si sveglia in preda agli incubi. Ha perso tutta la famiglia sotto il peso della casa devastata dal terremoto di aprile. Lui è stato salvato dopo 18 ore. Piano, piano, il suo grido si affievolisce tra le braccia di Nabina, che lo culla.
Nabina è una delle cinque “nonne” che hanno “adottato” Dipdarsan. E che ogni notte si alternano per scacciare gli incubi di un bimbo che deve crescere in fretta. Non può accedere ad alcun servizio psico-sociale, e ha smesso di andare a scuola anni fa. Per lui ci sono però braccia accoglienti: accompagnano il dolore, cercando di dare un senso a tutta quella sofferenza.
La forza della comunità qui si sente nella voglia di andare avanti, nella solidarietà propria di una cultura millenaria che ha al suo centro la compassione. Si sente anche anche nel profumo di incenso che Nabina porterà al tempio, insieme ai fiori.
La mattina si anima di rumori. Le tende sono aperte sin dalle prime luci. Barati sta mettendo in fila i mattoni con i suoi bimbi, la moglie e i vicini. Barati è uno delle migliaia di nepalesi che vivono all’estero, spesso in condizioni molto precarie, per non dire disumane. Lui sta in India da molti anni: gira di città in città, fa quello che può, ma invia sempre i soldi a casa. È appena tornato per ricostruire la casa distrutta dal terremoto. Una casa di cinque camere capace di ospitare la famiglia allargata ai suoceri anziani. Succede un po’ in tutto il Paese: ogni giorno si vedono spuntare le mura fatte di mattoni e bambù.
Le famiglie della stessa tribù costruiscono insieme, pezzo dopo pezzo, non solo della palazzine ma anche un tessuto comunitario capace di reggere alla violenza devastante del terremoto. Barati confessa che in India lavorava 15 ore al giorno, fino allo stremo, per aiutare la famiglia e la sua gente. In questi giorni, sottolinea, si sente «forte e pieno di speranza».
Lo dice mentre guarda la grande statua di Buddha che sta in cima alla collina. Sorridendo, indica i vicini che stanno posizionando un bambù per iniziare a costruire il tetto di una casa insieme alle mogli. Le donne sono le grandi protagoniste di una ricostruzione che ha del miracoloso.
La vita sta riprendendo velocemente, nonostante lo sciame sismico e l’arrivo dei monsoni. E molto è dovuto proprio alle donne, in particolare quelle che vivono nei villaggi sulle montagne. Il volto di Amrita le rappresenta.
Si trova nel villaggio di Manbu, nel distretto di Gorkha. Aveva quattro figli, ha un marito in Malaysia che non sente da un anno, e ogni mattina lascia la stalla per le capre che ora è diventata la sua casa per andare a coltivare i campi. Per raggiungere il suo villaggio ci vogliono almeno sei ore a piedi e nessuno nel paese ricorda l’ultima volta che hanno visto un medico. Con la Camillian Task Force – l’Ong di primo intervento dei camilliani – siamo stati i primi a raggiungere il villaggio dopo oltre due settimane dal terremoto.
L’abbiamo incontrata quando abbiamo iniziato la nostra missione medica. Si nascondeva dietro il muro della sua vecchia casa in macerie mentre facevamo punture e check-up generali, scoprendo anche un caso di Tbc. Una vicina ci aveva chiesto di avvicinarla. Amrita aveva perso tutti e quattro i figli sotto le macerie della casa, e da allora non aveva più parlato con nessuno. Non riusciva nemmeno più a piangere. Le abbiamo chiesto di condividere un the. Piano, piano si è aperta. Ci ha raccontato della sua voglia di morire, del marito che aspettava, dei bimbi che non aveva più.
Un racconto fatto di gesti più che di parole. Ci ha fatto vedere il suo campo di granoturco. L’abbiamo aiutata a raccogliere alcuni ricordi nella casa crollata. Un quaderno dei bimbi, le immagini del Buddha, alcuni utensili della cucina. Dopo due giorni, aiutata dalle altre donne del villaggio, ha cominciato a spostare le macerie. Ha piantato una tenda. Per ricominciare a vivere.
È la grande capacità di resilienza di un popolo povero da sempre, ma che da sempre sa ricostruire la vita dopo un’esperienza di profonda sofferenza. In questi giorni si sono riaperte anche alcune scuole. Qui la dispersione è altissima: i dati ufficiali parlano di circa un milione e duecentomila bambini dai 5 ai 16 anni che non sono mai entrati in classe. Forse adesso qualcuno ci porterà Dipdarsan, a scuola. Forse questo piccolino smetterà presto di avere gli incubi, di notte. E potrà cominciare a sognare il suo futuro.
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