Articolo scritto da p. Luciano Sandrin, pubblicato nella rivista “Settimana”, editrice Dehoniane (Bo) Febbraio 2015
Nel Messaggio per la XXIII Giornata Mondiale del Malato, Papa Francesco si rivolge a coloro che portano il peso della malattia e ai vari professionisti e volontari che si prendono cura di loro, invitandoli a meditare su un’espressione del Libro di Giobbe: «Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» (29,15). E lo fa dalla prospettiva della sapienza del cuore: «un atteggiamento infuso dallo Spirito Santo nella mente e nel cuore di chi sa aprirsi alla sofferenza dei fratelli e riconosce in essi l’immagine di Dio». È una sapienza che è dono di Dio e che, pertanto, dobbiamo chiedere a Lui: «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio» (Sal 90,12). Ma è anche frutto di un lavoro umano.
Lo sguardo, il cuore e le mani
Di fronte alla sofferenza che quotidianamente incrociamo possiamo passare oltre, come il sacerdote e il levita che non si lasciano distrarre dai loro impegni o possiamo essere come il samaritano che vede, si lascia guidare dal cuore e non passa oltre: si ferma, si prende cura del ferito sospendendo, almeno per qualche ora, il suo viaggio. Si fa prossimo con lo sguardo, col cuore e con le mani.
Nella parabola del buon samaritano tutto avviene sulla strada, alla periferia dei sacri recinti: la «com-passione» o la «non-curanza». Ancora oggi sulle strade della vita ci avviciniamo a Dio o ci allontaniamo da coloro con i quali Gesù si identifica: i molti feriti che ci chiedono attenzione.[1] Siamo chiamati ad annunciare l’amore in cui crediamo e a testimoniare la nostra speranza con una «fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5,6). Nella diaconia della carità la nostra fede e la nostra speranza trovano le forme testimoniali più autentiche. Ed è questo il culto che Dio più gradisce e anche il test della nostra fede: «non puoi sapere se il tuo culto a Dio sia vero se non hai la possibilità di verificarlo sul giusto rapporto tuo con l’uomo».[2]
Possiamo farlo attraverso il dialogo, l’incontro, l’amore disinteressato, la parola che salva, la celebrazione che riannoda i fili relazionali con Dio e con la comunità, la cura professionale, l’impegno politico e sociale: prendendo a cuore la persona, ma anche la sua famiglia, cercando di cambiare la società e trasformare la cultura.
Siamo chiamati all’attenzione alle persone nei vari momenti della loro storia esprimendo, in modo particolare nelle esperienze di fragilità e di particolare vulnerabilità, una cura reciproca, uno scambio d’amore e un «con-forto» abitato dallo Spirito: un’attenzione – per usare il linguaggio di Papa Francesco – rivolta specialmente alle periferie del mondo e dell’esistenza, che non sono soltanto luoghi ma, soprattutto, persone, famiglie e interi gruppi sociali. È un’attenzione che nasce «un cuore che vede», come ci ricorda Benedetto XVI nella Deus caritas est: «Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente». (n.31) È questo il programma del cristiano. È anche il segreto che la volpe svela al Piccolo Principe: «non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».
Come cristiani siamo chiamati a fare nostro lo sguardo di Gesù sulle persone, a trasformare il ricordo delle sue guarigioni in opere, imitazione e profezia, e incontrare le persone dove esse veramente si trovano. Esse vivono nella salute e nella malattia, nella gioia e nel dolore. Ma è soprattutto nei momenti in cui la fragilità si fa particolarmente sentire che cercano, nella nostra attenzione e nella nostra accogliente prossimità, la presenza compassionevole del Padre, le mani del Figlio che versano sulle ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza, la sapienza dello Spirito.
Giobbe ha le carte in regola
La sapienza del cuore – sono parole del Papa – è uscire verso il fratello, è stare con il lui e servirlo, essere solidali con lui senza giudicarlo: non fare, cioè, come gli amici di Giobbe che pensavano che la sua sventura fosse la punizione di Dio per una qualche sua colpa.[3]
Nel discorso che contiene le parole «io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo», Giobbe rilegge la propria vita ed evidenzia che lui è sempre stato al servizio del bisognoso, sulla la linea stessa di Dio. E quindi ha le carte in regola perché ha sempre difeso il povero, anche con maniere piuttosto forti: «spezzavo le mascelle al perverso». Sono molti i cristiani che, ancora oggi, sono su questa linea di testimonianza. «Persone che stanno vicino ai malati che hanno bisogno di un’assistenza continua, di un aiuto per lavarsi, per vestirsi, per nutrirsi. Questo servizio, specialmente quando si prolunga nel tempo, può diventare faticoso e pesante. È relativamente facile servire per qualche giorno, ma è difficile accudire una persona per mesi o addirittura per anni, anche quando essa non è più in grado di ringraziare».[4]
L’esperienza della malattia e della sua cura può essere «un cammino di santificazione», nel quale si può contare sulla vicinanza del Signore e sul cuore attento di una comunità che vede e non passa oltre. «Il tempo passato accanto al malato è un tempo santo»: è lode a Dio, cammino di conformazione all’immagine di suo Figlio e sostegno speciale alla missione della Chiesa. È un servizio che ci porta a dedicare tempo a tante persone malate che, grazie alla nostra vicinanza e al nostro affetto, si sentono più amate e confortate. La “qualità della vita” è un criterio per migliorare la nostra relazione di cura, non per decidere quali sono le vite che «sarebbero degne di essere vissute!».
Con l’aiuto dello Spirito anche le persone immerse nella malattia, nella solitudine e nel dolore possono diventare accreditati testimoni dell’amore di Dio. Anche Giobbe, alla fine della sua esperienza, è diventato più sapiente: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5). E Dio lo accredita, nel rimprovero ai suoi amici, come un buon “teo-logo” che ha detto «cose rette» di Lui.
Il silenzio del Sinodo
Non solo la persona malata, ma anche la famiglia deve essere oggetto di una cura amorevole da parte della comunità ecclesiale, specialmente nei momenti che creano particolare sofferenza e si possono trasformare in sfide anche per l’amore coniugale. Ce le ricorda il Messaggio finale dell’Assemblea straordinaria del Sinodo: «Pensiamo alla sofferenza che può apparire in un figlio diversamente abile, in una malattia grave, nel degrado neurologico della vecchiaia, nella morte di una persona cara. È ammirevole la fedeltà generosa di molte famiglie che vivono queste prove con coraggio, fede e amore, considerandole non come qualcosa che viene strappato o inflitto, ma come qualcosa che è a loro donato e che esse donano, vedendo Cristo sofferente in quelle carni malate».
Un’affermazione che, almeno in parte, riscatta il «silenzio» dell’ultimo Sinodo dei Vescovi ‑ sia la voce della comunità cristiana sintetizzata nell’Instrumentum Laboris, sia la Relazione che dei lavori sinodali ne è il frutto – sull’impatto che esperienze legate alla malattia, alla disabilità, a forme di demenza collegate all’invecchiamento (e al dolore a volte “in-sopportabile” che le accompagna) hanno sulla vita delle famiglie che con queste esperienze “con-vivono” a volte per molti anni. Troppo poco – a mio parere ‑ l’accenno nel n.57 della Relazione: «la Chiesa sostiene le famiglie che accolgono, educano e circondano del loro affetto i figli diversamente abili».
Dimenticanza o distrazione di una Chiesa che poco assomiglia al buon Samaritano che «vide e non passò oltre». C’è tutto un anno di tempo per recuperare l’attenzione e ascoltare anche queste voci di sofferenza e la richiesta di aiuto che viene da parte delle famiglie che «con-vivono» con il dolore, la malattia e la disabilità.
La promessa di essere fedeli nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di prendersi cura reciprocamente l’uno dell’altro lungo tutto il corso della vita, non riguarda solo i due coniugi ma la comunità cristiana nel suo rapporto d’amore col Cristo presente in chi soffre.
Luciano Sandrin – camilliano
[1] Cf. L. Sandrin, Lo vide e non passò oltre. Temi di teologia pastorale, Edb, Bologna 2015.
[2] D.M. Turoldo, Anche Dio è infelice, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1991, 90.
[3] Cf. Messaggio di Papa Francesco per la XXIII Giornata Mondiale del Malato, anche per le riflessioni che seguono.
[4] Cf. L. Sandrin ‑ N. Calduch-Benages ‑ F. Torralba Roselló, Aver cura di sé. Per aiutare senza burnout, Edb, Bologna 2009.
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